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Poesia d'immagini

di Siro Ferrone
  Sorelle Mai
Data di pubblicazione su web 18/03/2011  

Meno male che c’è Bellocchio. E lascia il segno. Un film di famiglia che diventa un film di poesia. Con una pellicola che esibisce la sua grana forte e elementare, una macchina da presa che accompagna i movimenti e i corpi come una seconda pelle, una pittura d’ambiente che nulla concede alla calligrafia.

 

Sei episodi girati a Bobbio in sei anni diversi tra il 1999 e il 2008 seguono il crescere e l’invecchiare di personaggi che sono in parte famigliari di Bellocchio che si fanno attori e in parte sono attori che si fanno famigliari di Bellocchio. Una storia, più storie che l’autore avvicina con uno sguardo minimalista improvvisamente acceso da illuminazioni figurative che oltrepassano il minimalismo degli interni. Come la straordinaria scena finale del suicidio di “Gianni Schicchi” che si lascia annegare nel suo vecchio frack. Come il consiglio di classe che il preside Pier Giorgio Bellocchio dirige come una seduta di matti. Come le scene sull’acqua del torrente sospese tra realtà, immaginazione e ricordo. Come la bizzarra seduta davanti al notaio per la vendita della casa da cui le anziane sorelle sperano di cavare i soldi per una nuova e più grande cappella funeraria. Squarci che aprono le pareti della prosa quotidiana, periodicamente, tutti i personaggi tornano, nonostante i tentativi di evasione.

 

Ma intanto il teatro affiora continuamente: Sara che sogna, inadeguata, di essere attrice; Giorgio che attore diventa ma senza felicità; la giovane del paese che ama, ignorata, Giorgio e per anni e anni continua ad amarlo; Sara che prova sul fiume la parte di Lady Macbeth; la famiglia che si scalda il cuore ascoltando il Trovatore verdiano. Ma è soprattutto Cechov il nume tutelare, il testo più volte evocato direttamente e indirettamente. Bellocchio – di cui si ricorda un memorabile Gabbiano di molti anni fa – lo cita e lo fa citare. Lo rammenta Giorgio ripetendone letteralmente il testo. Lo rammenta, incarnando in sé tanti personaggi cechoviani di donne belle e intristite (Mascia prima di tutte), la ragazza che da bambina si innamorò di Giorgio come di Zio Vanja, e che lo ritrova per altre due volte negli anni per poi perderlo inesorabilmente come un sogno. Ed è lei – che vive nell’ombra di una provincia disprezzata e irrinunciabile – il personaggio che figurativamente (sempre colta in chiaroscuro, dentro l’ombra, fuggente come un fantasma) lascia sulla pellicola l’impronta di un desiderio che si scioglie in rassegnazione: come la donna che appariva, sognata, nella domestica solitudine del protagonista dell’Ora di religione.

Resta da dire che la filigrana del racconto è leggera e consente un abbandono frequente a citazioni autobiografiche nelle quali lo sguardo del pittore è nello stesso tempo affettuoso e ironico, consapevole e abbandonato, autobiografico e narrativo. Ci sono dentro molti altri film di Bellocchio: dai Pugni in tasca di cui si citano frammenti ambientati nello stesso tinello domestico, ai contrappunti operistici spesso presenti nelle colonne sonore del regista piacentino.

 

Sorelle Mai
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