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Marcello Pagnini

di Roberto Fedi
  Tania Bottom e le fate, John Henry Fuseli, c. 1794, copertina
Data di pubblicazione su web 30/06/2010  

Marcello Pagnini era un uomo elegante. Alto, portava la sua figura con nobiltà, e forse anche con qualche  giustificabile piacere. A volte lo si vedeva su una Citroen DS magnifica, un tocco di classe tranquilla. Era nato nel 1921, ed è scomparso domenica a Pistoia. Con eleganza, anche questa volta, senza clamori né prima né dopo.

 

Aveva scelto, lui docente di Letteratura Inglese a Firenze, noto internazionalmente, socio dell’Accademia dei Lincei, di risiedere in provincia, dove era nato, senza per questo nessun esibizionismo snobistico. Non era un uomo e nemmeno uno studioso provinciale, anzi. Aveva ereditato una tradizione di anglistica che in Italia è sempre stata viva, anche se spesso marginalizzata. E l’aveva rinnovata, coniugandola con studi importanti sullo strutturalismo e sulla semiotica, di cui era uno dei maggiori esponenti in Europa. Senza per altro dimenticare le sue origini di letterato attento alla storia, e quindi con un profondo attaccamento al fatto testuale, senza quindi lasciare che il Metodo o i Metodi soggiogassero il testo e l’autore studiato: in questo, il suo lavoro di studioso era esemplare. Un innovatore, nel panorama spesso asfittico della cultura italiana, spesso più attento a seguire le mode del momento che a farle durare. Aveva studiato gli inglesi, fra cui già all’inizio della sua carriera Wordsworth e Collins, si era dedicato a Shakespeare, e in particolare a King Lear e al Sogno di una notte, che aveva anche curato per Garzanti. Aveva studiato con metodi semiotici la musica (Lingua e musica. Proposta per un’indagine strutturalistico-semiotica, Il Mulino 1974) e nel 1970 aveva pubblicato per Einaudi un testo fondamentale, Critica della funzionalità (seconda ed. 2002, Edizioni di Storia e Letteratura), con cui si può dire che lo strutturalismo e la semiotica entrassero nelle Università dalla porta principale. Sempre, il suo era lo sforzo di sottrarre il testo letterario all’aleatorietà del gusto, e considerarlo un elemento da studiare come una scienza, senza complessi di inferiorità.

 

Nelle sue pagine infatti non mancava mai il senso del testo, dei suoi significati, della sua storia (e del contesto nel quale si situava). Pietro Boitani, un altro grande comparatista, ha ricordato un esemplare brano di Pagnini: «una critica letteraria avveduta non può, e non deve, dimenticare che la letteratura non può essere ridotta a un gioco di funzioni. Il discorso del poeta è un atto del soggetto empirico in un particolare momento della sua esistenza, in una particolare fase della storia dell'umanità. I contesti storicizzano, e umanizzano, gli artifici dei poeti». Era un modo, quasi rivoluzionario, di coniugare lo studio dei segni o semiotica con una tradizione storica fondamentale nel nostro paese, anzi proprio qui nata e cresciuta da Francesco De Sanctis in poi. ‘Umanizzare’ la poesia, dunque, è un modo per capire di più, per essere noi stessi meno astratti e meglio collocati nel nostro tempo. A questo rispondeva la collana dei Contesti culturali delle letteratura inglese, diretta per Il Mulino, di cui aveva curato il volume sul Romanticismo – uno dei suoi ‘luoghi’ culturali preferiti,  con William Blake su tutti.

 

Attento a scoprire le ‘costanti’ dell’azione letteraria, in uno dei suoi ultimi libri, Pragmatica della letteratura (Sellerio, 1999), scriveva: «bisogna distinguere tra ciò che viene stabilito come estetico […] e ciò che viene stabilito come 'letterario'. Ciò che viene stabilito come 'letterario' ha a nostro avviso una durata infinitamente più lunga, e, pur nella indiscutibile storicità di tutti i fenomeni umani, ha una 'costanza' tale da potersi considerare tratto permanente». Di questa permanenza, gli studi di Marcello Pagnini saranno, anche in futuro, un elemento imprescindibile: con la sobrietà e l’eleganza che lo hanno sempre distinto, anche fra i colleghi.


 


Volume a cura di
Marcello Pagnini
 


di Marcello Pagnini





 
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