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Un teatro che parla coi piedi

di Lorenzo Mango
  Joan of Arc
Data di pubblicazione su web 08/06/2010  

Il teatro, si è usi dire, non sopporta il museo. Racconta Peter Brook dello sconforto che lo colse l’aver visto a Mosca un’antica regia di Stanislavskij che il Teatro d’Arte continuava ad avere in repertorio, per tenerla in vita, ma che, ai suoi occhi di giovane regista, apparve cosa morta proprio perché museificata e immobilizzata nel suo presentarsi com’era stata e come, evidentemente, non riusciva più ad essere. È un problema, quello del “repertorio di lunga durata” che museifica l’opera teatrale bloccandola in un’identità non più in grado di rigenerarsi, complesso e, a suo modo, grave, specie per quel teatro –  ed è tanta parte del nostro Novecento – che viceversa ha fatto dell’evento, dell’incontro tra opera e pubblico che si celebra in un momento irripetibile la sua stessa ragion d’essere.


Il Bread and Puppet è sicuramente una di quelle realtà. Nato nei primissimi anni Sessanta, il gruppo di Peter Schumann ha rappresentato uno dei momenti più forti di un teatro d’intervento attivo e militante, sia sul piano dell’estetica che della politica, giocando programmaticamente fuori dai confini istituzionali della “forma teatro”. Ritrovarsi oggi a contatto nuovamente con una delle sue opere della metà degli anni Settanta, Joan of Arc, è dunque una condizione che rischia, e non poco, la caduta nel museo, con tutto il disincanto che questo comporta. Lo spettacolo ha fatto una vera e propria “apparizione” italiana di due soli giorni, a testimonianza, oltretutto, di come all’interno della pattuglia degli sperimentatori degli anni Sessanta Peter Schumann abbia finito un po’ per essere rimosso, relegato nella memoria di pochi e, quando va bene, considerato solo come parte della ricostruzione storica di quegli anni e non come un soggetto ancora attivo. Le ragioni di tale fugace apparizione vanno nominate, perché hanno una dimensione civile credo importante. Joan of Arc ha inaugurato l’apertura di un nuovo spazio teatrale a Terni (già di per sé cosa inusuale in questi tempi bui), un teatro del Comune che, per dirla con Leo de Berardinis, è uno “spazio della memoria”, in quanto dedicato a Sergio Secci, giovane studente del Dams bolognese morto il 2 agosto 1980 nell’attentato alla stazione di Bologna, pochi mesi dopo aver discusso una tesi proprio sul Bread and Puppet, che è stata poi pubblicata postuma dalla Casa Usher e rappresenta uno degli studi più puntuali sul lavoro di Schumann.

Joan of Arc torna in scena, a distanza di più di trent’anni, in una versione assolutamente aderente a quella originale. Gli attori sono cambiati, certo, a parte credo il solo Schumann, ma questo, in fondo, ha un’incidenza solo relativa, perché nello spettacolo essi hanno sostanzialmente un ruolo di sostegno alle immagini. Viceversa la partitura scenica, contrariamente a quanto accadeva di solito negli spettacoli del Bread and Puppet, specie in quelli di strada che erano fortemente condizionati del momento, è in questo caso formalmente molto definita. Il rischio del museo, dunque, si presentava altissimo. Non è così. Di fronte a Joan of Arc non si ha la sensazione di assistere alla testimonianza di un’epoca passata, lontana e finita, di cui si rievoca, magari nostalgicamente, la memoria. Si ha, piuttosto, la sensazione – ben diversa se non addirittura opposta – di vedere un “classico” (magari, come vedremo, un piccolo classico) nel senso di un’opera intimamente radicata nel momento storico che l’ha generata (soprattutto per quel che riguarda le scelte linguistiche) ma in grado di comunicare con lo spettatore di oggi per quello che è (che i suoi segni sono) e non per quello che ricorda (ciò cui i suoi segni rimandano).


Joan of Arc è uno spettacolo piccolo (per questo ne parlavo come di un piccolo classico): dura un’ora scarsa ed ha uno spazio scenico miniaturizzato, ritagliato da tre tendaggi ad altezza d’uomo a formare una scena angusta e schiacciata verso lo spettatore che è invitato a una visione intima, ravvicinata, da teatro da camera (quanto diverso, in questo, dalle parate di strada, dai pupazzi immensi di tanti altri lavori del Bread and Puppet!). Il tema drammatico è la vicenda di Giovanna d’Arco che consente a Schumann di coniugare due elementi che gli stanno particolarmente a cuore: la guerra (obiettivo polemico strategico del suo teatro) e la religiosità (intesa in un senso non ortodosso come rispetto e amore per tutto ciò che è vivo). Quella di Giovanna d’Arco è presentata come una vicenda di ribellione all’oppressione e di inconciliabilità col potere (qualsiasi potere) che porta prima al sacrificio e poi alla trasfigurazione spirituale. La storia, però, nello spettacolo non è raccontata. È un “già dato” e Schumann lo dice chiaramente: se l’ha scelta è proprio perché è una di quelle vicende che, in un modo o nell’altro, appartengono al nostro immaginario e alla nostra cultura diffusa. Magari la si conoscerà solo per cenni o sommi capi, ma difficilmente è ignota e quindi la si può trattare con la massima libertà possibile. È quanto orientò, a suo tempo, Grotowski ad optare per i “classici”, portatori, a suo dire, di una dimensione mitica ampiamente condivisa o che, su un fronte diverso, consentiva agli spettatori di Carmelo Bene di orientarsi dentro la decostruzione/dissoluzione scenica più radicale in presenza, comunque, di Amleto, Otello o magari di Macbeth e Riccardo III. Si tratta, in tutti questi casi, della strategia linguistica di quella parte più avanzata e sperimentale della regia contemporanea che possiamo ricondurre al concetto di “drammaturgia della differenza”, in quanto i segni scenici sono autonomi (giacché non illustrano né rappresentano un racconto drammatico) ma al tempo stesso esistono in quanto differenza rispetto ad un originale che, ad ogni modo, è dato, anche se non rappresentato in scena. Joan of Arc è a tutti gli effetti un caso esemplare di tale “drammaturgia della differenza” pur non agendo su una materia di riferimento direttamente teatrale. Resta il fatto che Schumann lavori sulla vicenda della Pulzella d’Orléans perché è un mito, chiamiamolo così, della nostra cultura epica.

Come funziona la sua opera di riscrittura scenica? Schumann ha individuato una serie di momenti/emblemi che spaziano dall’invasione delle truppe inglesi, alla chiamata angelica di Giovanna, alla battaglia di Orléans, all’incoronazione del Delfino di Francia, al processo e, conseguentemente al rogo, per chiudere con l’ascesa dell’anima di Giovanna al cielo. Le scene, otto in tutto, sono nettamente separate e distinte tra loro. Iniziano con l’apertura di un sipario che chiude alla vista il piccolo vano scenico e si concludono con la sua chiusura. Ogni scena, poi, è introdotta dal regista in piedi accanto al sipario assieme a un batterista. Come un cantastorie Schumann prima comunica, come in una sorta di didascalia orale, quanto sta per accadere, poi si lancia in una oratoria musicale, suonando ma, più spesso, dialogando con versi e suoni della voce con la batteria e creando, così, un vero e proprio commento emotivo alla situazione che sta per compiersi, un commento astratto accompagnato da gesti delle mani e delle braccia quasi a voler sostenere il suo discorso muto.


È un approccio assolutamente brechtiano all’organizzazione drammaturgica della materia narrativa. Per la logica compositiva complessiva, in primo luogo, che è affidata alla giustapposizione di scene separate e non disposte in un rapporto di causa ed effetto tra di loro, ma anche per la logica interna che sovrintende ad ogni scena: individuare per ciascuna un motivo tematico forte attorno a cui far ruotare la situazione drammatica rendendola così emblematica. L’emblema – che in Brecht è di natura narrativa e argomentativa – in Joan of Arc assume, però, una configurazione più legata all’origine del nome. È un’immagine. La vicenda di Giovanna d’Arco diventa, nelle mani di Schumann, una sequenza di immagini. Immagini semplici, nette, altamente e direttamente comunicative. Mai, però, piattamente didascaliche perché, pur se chiarissime ed esplicite, si affidano all’obliquità evocativa del linguaggio poetico. Giungono, cioè, al loro obiettivo enunciativo (anche sul piano della ricaduta politica di tale enunciazione) attraverso uno scarto, uno straniamento lirico.

Le materie prime utilizzate per ottenere questo scopo sono due: le maschere (compresi gli oggetti/personaggi) da un lato, e i disegni che danno corpo allo scenario dall’altro. Le prime, assieme al pane che Schumann continua indefesso da decenni a sfornare e distribuire al suo pubblico, sono parte del nome stesso della compagnia, e si presentano nello spettacolo come delle silhouettes a volte di sapore espressionista (con evocazioni di Grosz) a volte con suggestioni magiche e surreali (con richiami a Chagall). I disegni, invece, sono brevi immagini compendiarie, grossi segni che suggeriscono mondi e ambienti di sapore favolistico, avvicendandosi sui tre fondali come fogli gettati un po’ casualmente dall’alto. L’azione drammatica è raccontata fondamentalmente attraverso questi due strumenti. Gli attori ci sono, certo, ma, almeno apparentemente, ridotti al ruolo funzionale di animare l’inanimato. Sono, però, dichiaratamente visibili nelle loro lunghe tuniche nere, il capo totalmente velato, vere e proprie citazioni viventi del bunraku, il teatro di marionette giapponese in cui gli animatori, tre per ogni personaggio meccanico, lo agiscono in scena, visibili fisicamente ma invisibili drammaturgicamente, chiusi come sono dentro sai neri che li dichiarano inesistenti al dramma. Schumann assume questa condizione della figura umana nel teatro di figura ma la rielabora. Se è senz’altro vero che i personaggi sono, in gran parte, personaggi artificiali, in quanto costruiti attraverso maschere ed oggetti, è vero anche che il rapporto attore oggetto è complesso. Anzitutto perché non c’è una figura, una marionetta per intenderci, come è nel bunraku, che sia personaggio di per sé e che quindi va solo animata. I personaggi di Joan of Arc sono, nella più parte dei casi, degli ibridi. Quando, nella seconda scena, “le case piangono” per la guerra, come ha detto Schumann prima che la scena cominci, esse sono delle case/maschera indossate dagli attori, vere e proprie teste sui corpi “invisibili”. Gli inquisitori, poi, quando Giovanna è sottoposta all’interrogatorio, altro non sono che due orecchie e un naso enormi, retti e animati ciascuno da un attore diverso. Nel quadro iniziale, infine – ed è interessante che le scene siano definite “picture”, quadri – l’esilio dalle proprie case cui sono sottoposti i contadini è reso da tre attori (sempre chiusi nel loro costume nero) che letteralmente spazzano via una serie di piccole persone/case. Già solo citando questi tre esempi si nota come il rapporto attore oggetto scena e racconto, in Joan of Arc, sia ricco di soluzioni e sfumature, destinate a mettere in gioco, in modi diversi, il rapporto tra figura umana e figura artificiale che si contaminano reciprocamente dando vita a un corpo scenico che è vera e propria immagine in movimento. A segnalare la natura ambigua e complessa degli attori “umani” rispetto a quelli “artificiali” c’è il personaggio di Giovanna d’Arco, che è interpretato da un’attrice, chiusa anch’essa dentro il solito costume di scena, che stavolta però è bianco. Oltre a questa giustapposizione cromatica, il dato più importante ai fini del nostro discorso è che Giovanna è personaggio in un senso più canonico, in quanto coincide con l’attrice, pur in assenza di tratti visuali che la distinguano dagli altri attori/funzione (a parte il colore). D’altro canto, però, quando è il momento della battaglia e Giovanna impugnerà due spade con cui affrontare un esercito inglese fatto di maschere, le spade, significativamente, sono fuse con due grandi mani di cartapesta, così che, in realtà, l’attrice non le impugna direttamente ma indossa, per così dire, le sue stesse mani artificialmente rese. Ancor più forte è l’effetto di straniamento (uno straniamento lirico, ribadiamolo) nel quadro della chiamata angelica. Le voce celesti, annuncia Schumann, parlano alla cucina, a segnalare l’umile condizione originaria della giovane guerriera. L’ambiente è schematicamente tracciato sui fondali, da un lato all’altro della scena sono appesi utensili metallici, Giovanna è inginocchiata che lava il pavimento. Sulla destra, però, è appeso un grande orecchio di cartapesta dentro cui sibila e modula suoni di trombe arcaiche e ancestrali (che ricordano quelli dei monaci tibetani) attraverso un fiore dal lunghissimo stelo lo stesso Schumann che indossa un paio di ali infantili. Ad ogni richiamo delle voci più che Giovanna, sono gli oggetti a rispondere, muovendosi e “parlando” attraverso i suoni che producono urtandosi. Il colloquio è tra cose, dunque, cose personalizzate al cui interno agisce il personaggio/attore.


Si determina, dunque, nello spettacolo una sorta di scrittura di confine in cui gli oggetti si personalizzano e, all’inverso, gli attori tendono a trasformarsi in cosa della scena. Questo produce una scrittura di scena nel senso più ampio e ricco del termine. Siamo, infatti, di fronte a un teatro di immagini non tanto perché c’è una sapienza particolare nel costruire gli apparati visivi dello spettacolo, né, in fondo, perché questi appaiano particolarmente ricchi e curati, ché anzi sono poveri ed elementari, giocati sui toni di un minimalismo che non induce al formalismo, anche se si affida a una cura straordinaria della componente formale dello spettacolo. Per capirci il Bread and Puppet crea un teatro di immagini radicalmente diverso da quello cui ci ha abituato un regista come Wilson. È un teatro povero, il suo, ma di una povertà particolare resa più dalla qualità dei segni visivi (a monte di tutto da un radicale bianco e nero) che da quella certa natura dei materiali, come accadeva negli spettacoli di Grotowski o in quelli di Kantor. La qualità scenica, però, non risolve la dimensione teatrale di Joan of Arc, perché le immagini agiscono efficacemente anche al di là di un piano meramente percettivo. Sono il tramite attraverso cui Schumann esprime il suo dire, ciò che vuole comunicare, ed è particolarmente interessante notare questo oggi, quando sembra che la sfera della comunicazione teatrale sia tornata a trincerarsi nuovamente dentro i confini rassicuranti della parola, diffidando quasi delle capacità della scena a produrre dramma da sé. In Joan of Arc non ci sono parole, tranne le poche illustrative di Schumann, eppure è uno spettacolo che parla moltissimo, ma parla un linguaggio discretamente misterioso che agisce lungo i margini della comunicazione. Fa, cioè, perfettamente capire ciò che il regista vuole dire pur senza pronunciarlo mai esplicativamente quel dire. Un esempio. Ancora la scena degli inquisitori. Un coppia di nasi e orecchie affianca Giovanna. Cosa fa un inquisitore? Indaga, cerca di scoprire la colpa. Schumann ha l’intuizione geniale di far annusare Giovanna dai due smisurati nasi che la sfiorano cercando qui e lì lungo il suo corpo quello che siamo portati a pensare essere l’odore del diavolo. Poi la aggrediscono con le loro domande, ma gli attori del Bread and Puppet non parlano e allora Schumann ha voluto che, letteralmente, parlassero coi piedi. Man mano che la scena va avanti, i due inquisitori (che sono sei, non lo scordiamo, tre animatori per ogni personaggio, due per le orecchie e uno per il naso) cominciano a battere ritmicamente per terra e questo suono sordo, ritmico, incalzante si trasforma, verrebbe da dire magicamente se non fosse retorico, nelle parole che schiacciano Giovanna al suolo.


A considerare questa scena – ma è considerazione che possiamo tranquillamente estendere al complesso dello spettacolo – c’è un elemento che caratterizza fortemente la scrittura scenica di Schumann e la rende “eloquente” sul piano artaudiano di una poesia della scena: accanto a un rigoroso senso della costruzione della struttura dello spettacolo, un sentimento delicatissimo dei particolari. Già l’atto degli inquisitori sarebbe sufficiente a dimostrare quanto sto provando a dire, ma va citato almeno un altro caso. Una volta “ascoltate le voci”, Giovanna è condotta, come in trance, a impugnare le armi e condurre l’esercito. La guida il suono di un campanellino (che ha scandito e continuerà a scandire le cesure tra le singole scene). Lo impugna Schumann stesso davanti a Giovanna e il suono la fa avanzare. Fin qui la soluzione scenica sembrerebbe finanche ovvia, ma Schumann sa, e ce lo dice con le immagini, che ciò che ci fa avanzare sono i nostri piedi, oltre ai nostri pensieri, così il campanello non vibra genericamente davanti al personaggio, ma davanti ai suoi piedi che sono condotti, così, in avanti fino a ad un paio di scarpe che, una volta indossate, consentiranno a Giovanna di “suonare” il rumore della battaglia. A voler usare una metafora letteraria, potremmo dire che, come poeta della scena, Schumann possiede un forte senso strutturale e musicale della strofa e uno straordinario gusto lirico nella selezione degli aggettivi.

Percepire a più di trent’anni questa qualità del linguaggio e vederla ancora attiva nei confronti dello spettatore, che reagisce emotivamente oltre che intellettualmente, è ciò che fa percepire oggi un modo d’essere del teatro, che allora si voleva insurrezionale e irregolare, come un piccolo classico del contemporaneo. Piccolo per le dimensioni, non per l’intensità.

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