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Abbasso la ricchezza!

di Vincenzo Borghetti
  Una scena
Data di pubblicazione su web 07/06/2010  

Nel mondo dominato dal capitale non c’è più posto per la leggenda. Non c’è più perché il denaro ha compromesso i valori del mito. Non è più la gloria in battaglia che decide dell’onore di dèi ed eroi; nell’Europa dominata dalle banche rispetto, fama e timore sono ormai garantiti solo dalla moneta sonante. Wagner prende coscienza della irrimediabile frattura della sua epoca con la tradizione, e crea allora una nuova mitologia, raccontando il mito originario della modernità: quella bramosia di danaro che avrebbe compromesso in modo definitivo l’ordine e la beatitudine del cosmo. Il Ring des Nibelungen vuole essere una nuova Bibbia e il Rheingold la sua Genesi. L’infelicità del mondo non è dovuta alla debolezza dell’uomo di fronte ad un serpente tentatore, bensì alla sua (modernissima) debolezza di fronte all’oro, unica vera divinità riconosciuta sia ai tempi delle figlie del Reno, sia a quelli dei finanziatori di Bayreuth, sia poi ai giorni nostri.

 

Se tutti i miti, le leggende, le epopee della tradizione ci parlano attraverso metafore e, mutatis mutandis, possiamo sempre vedere tracce di noi anche nelle gesta degli eroi biblici e di quelli omerici, con Wagner la metafora è immediata, e nei suoi eroi ci rispecchiamo in modo più diretto. Qual è del resto la distanza che possiamo sentire con quel passato mitico, quando ci viene mostrato il capo degli dèi contrarre debiti per costruire una casa, quando la sua parola di dio «non vale uno zero», e anch’egli deve dare congrue garanzie per avere aiuto da tipi pochissimo raccomandabili (i giganti Fafner e Fasolt che, sebbene primitivi, i conti se li sanno già fare benissimo)? Il Ring è allora l’opera della modernità per eccellenza, quella dove Wagner ci fa capire che l’epica dell’uomo contemporaneo può solo narrare della lotta per il possesso e la difesa dell’unico bene che abbia ormai ancora senso e valore: il denaro. Il Rheingold si apre infatti con un furto nella ur-banca del Reno, furto che mette in moto la macchina infernale delle transazioni finanziarie a catena che infiniti lutti addurrà ad uomini e dèi, e molte anzi tempo…

 

Una scena

 

La Scala dunque ci riprova col Ring, e propone nella stagione 2009 2010 il primo risultato della collaborazione con la Staatsoper Unter den Linden di Berlino (Barenboim ne è il Generalmusikdirektor dal 1992), i cui frutti si vedranno nei prossimi anni (Die Walküre è già anunciata a Milano come opera del 7 dicembre 2010; le altre due debutteranno invece a Berlino per arrivare in seguito in Italia). Ci riprova perché nell’era Muti si era tentata una produzione distesa su più stagioni (e affidata a più registi), ma proprio il Rheingold era stato dato in forma di concerto nel maggio del 1996. L’aspetto decisivo di questa produzione è la regia, affidata al belga Guy Cassiers, che viene da importanti esperienze nel teatro d’avanguardia, e che per la prima volta mette in scena un’opera del repertorio. Il suo Ring completo è annunciato come “nuovo”, né potrebbe essere diversamente. Allestire l’intero ciclo ogni volta è un’impresa talmente onerosa che ci si augura che duri e faccia scuola per i decenni successivi. Il Konzept è dunque fondamentale; quello “nuovo” di Cassier è illustrato in due bei saggi contenuti nel programma di sala, commissionati per l’occasione a Erwin Jans (Dramaturg del Toneelhuis di Anwersa, teatro diretto dallo stesso Cassiers) e a Michael P. Steinberg (docente della Brown University e studioso della musica austro-tedesca tra Otto e Novecento). Qui gli autori fanno il punto della tradizione scenica del Ring dalla sua creazione fino ai giorni nostri, e propongono una lettura particolareggiata della realizzazione di Cassiers.

 

Lo spettacolo di Cassiers si inserisce nel solco della fondamentale produzione di Patrice Chéreau per il festival di Beyreuth del 1976. Laddove però Chéreau sceglieva una precisa collocazione storica (Germania tra 1870 e 1945), Cassiers opta per un’ambientazione in un imprecisato tempo presente, di cui la scena riproduce simboli e feticci. Lo spazio è occupato da pochi elementi: una vasca quadrangolare piena d’acqua in cui si muovono le Figlie del Reno e Alberich nella prima scena, e su cui, protetti da minimi praticabili grigio-cemento, camminano gli altri personaggi in quelle successive (scene e luci sono di Enrico Bagnoli). Nella scena del Niebelheim cala dall’alto un baldacchino high tech su cui sono montate le telecamere che permettono ad Alberich di controllare il lavoro dei suoi schiavi. Per il resto l’allestimento è tutto centrato sull’uso di videoproiezioni di Arjen Klerkx e Kurt D’Haeseleer, e sulla presenza dei danzatori della compagnia Eastman di Anversa (le coreografie sono di Sidi Larbi Cherkaoui) che doppiano, contrappuntano e sostituiscono i movimenti dei personaggi sulla scena, anch’essi molto contenuti.

 

Una scena

 

Nonostante le proiezioni, la regia di Cassiers si tiene lontana dal meraviglioso. Nella sua lettura del Rheingold al presente assoluto anche la tecnologia è quotidiana: bagliori, immagini sfocate, volti, ombre, mappe da navigatore satellitare (nulla che non si riesca ad ottenere anche in casa con un pc) danno corpo all’universo wagneriano come è immaginato dal regista belga. Non ci sono insomma effetti davvero speciali, e, nei limiti del possibile, tutto è plausibile. Le Figlie del Reno sguazzano in pochi centimetri d’acqua, il Walhalla è una rocca poco invitante che compare su uno schermo monocromo, il Niebelheim sembra un laboratorio clandestino degno di Gomorra, con telecamere ovunque, gli dèi sono ex vip polverosi e sgualciti (i costumi sono dello stlista Tim van Steembergen), i giganti sono dei guappi qualsiasi (mi hanno detto che sullo sfondo al loro apparire venivano proiettate le loro ombre abnormi; dal mio posto però non si vedevano). Niente è più lontano di questo Rheingold dal gioco e dalla follia che aveva caratterizzato per esempio la lettura del Tannhäuser della Fura dels Baus vista pochi mesi fa alla sempre alla Scala, come anche la loro Tetralogia del Maggio Musicale Fiorentino nelle stagioni 2007-2009. Cassiers offre insomma una lettura demitizzata e despettacolarizzata dell’opera di Wagner, che lascia emergere l’origine del male in tutta la sua banalità e attualità.

 

Se però il suo Konzept è coerente (e a volte chiaro), la sua traduzione teatrale mi ha lasciato qualche perplessità. Anche vivacizzata dai danzatori (per altro bravissimi), la scena è di una staticità in alcuni casi snervante, al punto che persino l’opera più breve dell’intero Ring mi è parsa a tratti molto lunga. Un esempio: la seconda scena si svolge tutta su uno sfondo videoproiettato color verderame sempre uguale per oltre mezz’ora (il Walhalla triste di cui sopra), davanti al quale si aggirano gli dèi inframmezzati da qualche danzatore. In momenti come questo confesso di aver rimpianto qualche facile effetto anche disneyano, pur di avere qualcosa che mi desse un motivo per guardare la scena.

 

Di tutt’altro tenore la parte musicale. Daniel Barenboim ha offerto una grande prova direttoriale alla guida di un’orchestra scaligera in forma splendida. Il suo Wagner asciutto e scintillante ha suscitato l’entusiasmo del pubblico in sala, che ha riservato al direttore gli applausi più lunghi e più intensi della serata. Ottima la prova di alcuni dei cantanti. Tra tutte spicca quella di Stephan Rügamer (Loge), tenore dalla voce di notevole duttilità, capace di rendere col canto tutte le sfumature psicologiche dell’infido e mutevole dio del fuoco. Insieme a lui ricordo il Wotan autorevole di René Pape, e il Fasolt potente di Kwangchul Youn. I tre sono stati gli interpreti cui il pubblico ha tributato i maggiori consensi. Meno bene sul fronte delle voci femminili, che sono risultate al massimo corrette, ma senza mai essere emozionanti.

 

 

Das Rheingold



cast cast & credits

Una scena

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



Una scena



 
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