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Anime resuscitate, anime dimenticate

di Mariagiovanna Grifi e Assunta Petrosillo
  Albero senza ombra
Data di pubblicazione su web 02/06/2010  

Se per fare teatro civile bisogna realmente entrare in contatto con ciò di cui si parla e che si denuncia, César Brie è un modello esemplare. Regista e attore d’origine argentina e fondatore con Naira Gonzales e Giampolo Lalli nel 1991 del Teatro de Los Andes insieme alla comunità Yotala in un piccolo paese vicino a Sucre, in Bolivia, César Brie è prima di tutto coinvolto personalmente nelle questioni di cui tratta. E lo si legge subito nelle sue espressioni, nei suoi gesti, nella sensibilità, la cura e il rispetto che sono alla base delle sue messinscene.

 

L’albero senza ombra, che dà il titolo allo spettacolo, è quello della castagna boliviana, che in Italia viene erroneamente chiamata noce brasiliana. La Bolivia è una realtà che anche in questo piccolo particolare si rivela sconosciuta o, peggio, erroneamente nota. Lo spettacolo si rivela un’impresa di memoria storica: raccontare i fatti come realmente sono andati, far conoscere eventi tragici che sono stati taciuti. I risultati della lunga inchiesta sul massacro dei campesini (indigeni del Pando, uno dei nove dipartimenti in cui è divisa la Bolivia), avvenuto l’11 settembre 2008, sono stati presentati da Brie, Manuel Estrada e Javier Horacio Alvarez nel documentario Morir en Pando. Grazie all’aiuto del medico legale argentino Alberto Brailovsky, hanno scoperto una rete di complicità tra stato, potere giudiziario e medici legali boliviani, tutti implicati nel nascondere le vere cause delle uccisioni e nel falsificare addirittura le autopsie. Nell’opera teatrale Albero senza ombra − presentato all’Istituto di Cultura Francese nell’ambito della manifestazione Fabbrica Europa 2010, in corso a Firenze − Brie vuole dar voce alle vittime per far loro raccontare cosa è accaduto realmente, e lo fa con una delicatezza estrema. Per onor di cronaca spieghiamo i fatti: i Campesinos del Pando sono contadini, raccoglitori di castagne, tenuti come schiavi dai proprietari terrieri. Il loro desiderio è avere un pezzo di terra: l’eccidio dell’11 settembre è stato voluto dalla Prefettura proprio per negargliela. I sopravvissuti sono stati arrestati come autori del massacro di cui erano vittime.


 


Alcuni elementi scenografici
 

Nella scenografia emerge la sensibilità scenica di César Brie: essenziale, con pochi piccoli oggetti che già di per sé ci raccontano qualcosa di quel popolo boliviano e delle sue vittime. All’entrata due fanciulle ci accompagnano in una sala buia poco illuminata che di lì a poco diverrà il palcoscenico di Cesar. Lo spettatore diviene per un momento attore, cammina sulla scena, accompagnato dal canto di uccellini e da un fruscio che rimanda ai passi di chi calpesta foglie secche lungo un sentiero. Al centro della sala un rettangolo di fronde gialle delimita il palco nel quale sotto un lenzuolo bianco si nasconde lo stesso attore. Attaccati ad alcune corde di spago una ciotola e due vestiti tradizionali andini, uno femminile e l’altro maschile. Una scena vuota, i cui attrezzi sono tutti lì, appesi a mezz’aria o nascosti tra le foglie. Le parole, le storie basteranno a dar vita allo spettacolo. Il viaggio dello spettatore comincia ancor prima di sedersi: sulle poltrone, qua e là, trova immagini di boliviani, dal volto triste, dei quali si legge il nome e la breve storia in una didascalia: «Albertina Alvarez Nájar. Campesina scappa insieme al marito attraversando il fiume Tahamanu. Testimone dell’affogamento di due bambini». Una foto da tenere in mano − mentre Cesar resuscita attraverso le parole quelle anime dimenticate − e conservare come pro-memoria.

 

Improvvisamente, da sotto il lenzuolo, appare Brie che si sveglia da un incubo e da narratore-protagonista-interprete si alza. Mentre sfuma la musica cammina su quel sentiero di foglie e comincia il suo racconto, che non vuol essere una denuncia, ma un “serbar la memoria”. Percorre tutto il rettangolo, si avvicina al vestito da donna e narra, attraverso le parole di una madre, l’uccisione dei suoi figli; poi, simulando una sparatoria, con due corde tira in alto il vestito maschile e lascia parlare tra loro gli abiti – come marionette nelle mani di un Buttafuoco sanguinario − per poi sbatterli a terra, trucidati. È solo la prima di una lunga serie di reminiscenze: inizialmente l’attore cambia personaggio utilizzando oggetti o indossando indumenti, dopo un po’ non è più necessario: l’incipit di un nuovo racconto già ci permette di ascoltare una nuova testimonianza. L’abilità di essere uno e molteplice senza strafare è propria di un attore maturo, che non ha bisogno di trucchi per interpretare contemporaneamente ruoli diversi. Seguiamo le vicende orrende di queste vittime senza neanche far caso a chi le interpreta, perché si è profondamente coinvolti dalle loro storie. È questo lo scopo di Brie: rendere gli spettatori testimoni di ciò che è stato sotterrato da falsi referti medici e autopsie. I momenti di magia teatrale sono semplici e per questo bellissimi. In finale è ancora una madre a ridisegnare a terra il corpo del suo bambino ucciso con panni bagnati, i quali, accantonati tutti in un punto del palco, con un solo faro puntato su di loro e il buio circostante,  evocano le fosse comuni e la mancanza di seppellimento per molti altri corpi di vittime mai ritrovate.

 

Albero senza ombra
cast cast & credits
 



César Brie

 

 

 

Recensione al libro

César Brie e il Teatro de los Andes

 
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