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Furto con spasso ma non troppo

di Donato De Carlo
  Una scena
Data di pubblicazione su web 25/05/2010  

Per la seconda opera di questo tormentato Maggio Musicale Fiorentino, il mozartiano Ratto dal serraglio, è stato ripreso il fortunato allestimento della stagione 2002, che fu però allora presentato nella meno ampia sede del Teatro della Pergola anziché, come stavolta, al Comunale.


Jörg Schneider (Belmonte) e Ingrid Kaiserfeld (Konstanze) 

La regia di Eike Gramms ricorda che la semplicità è una virtù. Un sistema di quinte mobili, grate e archi moreschi, costruisce volta per volta gli spazi, aperti o chiusi, dell’azione; il mare, da dove l’azione parte e dove vuol finire, è sempre più o meno in vista nei morbidi colori del fondale; le luci suggeriscono con discrezione ed efficacia le situazioni emotive più importanti, come il tormento interiore di Konstanze, dominato dal rosso, e il finale ultimo, schiarito simbolicamente dal mattino. Tolte le vistose babbucce turchesche della tenace Blonde, il solo e grosso elemento di caricatura sta nel coccodrillo che accompagna il truce guardiano Osmin e fa da spauracchio al posto suo, un’invenzione forse suggerita dai versi del finale in cui Blonde, indicando proprio lui che per tutta l’opera l’ha insidiata, gli dà dell’animale. Registrato che il pubblico ha gradito molto questa trovata, non resta che dichiarare personale antipatia per soluzioni come questa, che scaricano caratteristiche espressive, quasi fossero Iva, su elementi scenici, anziché lasciarle per intero al corpo e alla voce del cantante; non è chiaro poi perché durante l’ouverture il coccodrillo facesse col capo cenni all’insù mentre si udiva la musica della nostalgia amorosa, mettendola così fra ironiche parentesi. Davvero divertente invece, sempre nell’ouverture, l’idea da trompe-l’œil che fa impersonare Belmonte, navigante ancora in lontananza verso la riva, a un bambino su una barchetta.


Maurizio Muraro (Osmin)

Alleggeriti al punto giusto i dialoghi, Gramms ha meritoriamente lasciato grande spazio al gioco sulla scena fra i cantanti-attori, quanto mai centrale in un genere come il Singspiel che si fonda sul trapasso fra recitazione senza musica e canto. Gustose le battute aggiunte come strizzate d’occhio: in inglese per rivolgersi alla britannica Blonde, e in italiano quando Osmin, essendosi già scolato la figlia e la mamma della famiglia dei fiaschi, si chiede dove sia finita la nonna. Purtroppo però la recita ha stentato a decollare per tutto il primo atto, e non ha retto con continuità nemmeno negli altri due; ma non si può imputare questo al regista, il quale poteva forse solo inventare qualcosa in più nella lunga introduzione strumentale alla grande aria dei martìri di Konstanze, tutta assegnata a un gioco di sguardi e posizioni col pascià Selim. Il problema è che, anche se sono riusciti gli insiemi, la coppia dei protagonisti è stata inferiore a quella dei servitori proprio nelle capacità recitative.


Chen Reiss (Blonde) e Maurizio Muraro (Osmin)

Jörg Schneider, Belmonte, ha una voce morbida, ma non sempre incisiva e poco agile; problemi nelle colorature e nel vigore drammatico ha avuto anche Ingrid Kaiserfeld, Konstanze, che ha pure sforzato qualche acuto, ma ha cantato invece assai bene le parti liriche, in particolare il grande recitativo ed aria del secondo atto. Molto più vivace ed efficace la coppia secondaria, nell’azione come nel canto: il Pedrillo di Kevin Conners e la Blonde vispissima e di bravura, impersonata da Chen Reiss: di lei in buona parte il merito della prima scena del secondo atto – la più riuscita insieme a quella dei fiaschi fra Pedrillo e Osmin - in cui respinge le avances del guardiano del serraglio e trasforma gli acuti in gridolini di spavento. Abbastanza buono l’Osmin di Maurizio Muraro, pur se in difficoltà a non farsi coprire dall’orchestra nell’aria del terzo atto; alla sua voce è però mancata un’autentica verve comica, e soprattutto le note gravissime. Con prontezza però, quando i sopratitoli hanno per errore cominciato a comparire in tedesco, ha trovato il frizzo giusto con cui riassumere le battute perdute. Karl-Heinz Macek, nella parte solo recitata del pascià Selim, è stato misurato, duro ma non spietato nella prima parte, riflessivo poi, impersonando bene la nobiltà morale del personaggio.
 


Una scena dello spettacolo

Altro problema l’orchestra sbiadita, forse esausta per la grande prova della Donna senz’ombra, o forse per le traversie politiche di queste settimane. Né convincente il coro. Infine, non si può dire che sia davvero riuscita la direzione di Zubin Mehta, salvo il ritmo drammatico dei concertati finali, e il contributo sostanziale agli altri buoni momenti. È che da lui ci si aspetta sempre non di meglio, ma il meglio.

Die Entführung aus dem Serail



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