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Canguroll

di Enzo Fileno Carabba
  Canguroll
Data di pubblicazione su web 18/05/2010  

AVVERTENZA

L’episodio da cui parte il racconto mi è stato riferito da persona amica come cosa vera, realmente accaduta.  Io non mi faccio illusioni sull’attendibilità delle persone che frequento. Però mi sembrava un bell’episodio. Significativo, come si dice. Ora alcuni mi assicurano che l’hanno visto in un film o letto in un libro. Però  nessuno è in grado dirmi  quale libro,  quale film. Questo di per sé è misterioso  e interessante. Io non me ne preoccupo più di tanto.  Sempre per via del fatto che non mi faccio illusioni sull’attendibilità delle persone che frequento. E poi  ormai il racconto l’ho  scritto. Sono comunque pronto a risponderne agli aventi diritto. Canguri compresi.

 

Il canguro con la giacca


Andavano verso i panettoni rossi.
Il fuoristrada planava come un aliscafo sulle praterie di polvere e roccia, tirandosi dietro una nuvola gialla che a tratti assumeva forma umana.
“Sembra un cinese che fa lo sci d’acqua” disse Adriano guardando la  nuvola nello specchietto.
Mauro rise tanto per fare: se quello era un cinese, era un cinese in via di decomposizione.
Erano ore che sfrecciavano senza incontrare neanche una fattoria, una casa, un distributore, nulla di riconoscibile. Tutta questa vastità li disturbava, non erano abituati. Però non se lo dicevano.
Gli era sembrato astuto andare per di là, quando avevano guardato la cartina. Poi avrebbero raccontato alle ragazze di aver percorso immensi spazi aperti, come diceva la canzone, nei territori sacri australiani e magari di aver trovato un vecchio aborigeno che gli aveva detto parole di grande saggezza, appollaiato su un pinnacolo di roccia, o su un formicaio alto tre metri. Cose del genere funzionano sempre, con le ragazze.

Solo che ora che ci si trovavano veramente, nel grande spazio aperto, non era come avevano immaginato. Non lo è mai. Avevano girato e rigirato la cartina in tutte le direzioni, cercando di metterla in asse con la bussola, ma i risultati non erano stati brillanti, nonostante il corso di sopravvivenza. Non solo non c’era la città che doveva esserci, ma proprio non c’erano tracce umane. La strada non era umana, sembrava la scia di una gigantesca lumaca del deserto. E neppure i copertoni o i pezzi di metallo che a volte apparivano, come madonne, al bordo della strada, neppure quelli erano umani.
Non più.
 Erano avanzi del pasto della lumaca.
La lumaca puntava verso le montagne rosse e gialle, stondate, che emergevano  dalla pianura in modo innaturale.

Appena svegli mangiavano bistecche che tiravano fuori da un contenitore refrigerato, poi andavano avanti bevendo tutto il giorno.
“Ah questo maledetto sole africano” declamò Mauro e si attaccò alla birra. Ogni volta che bevevano una birra dovevano dire “Ah, questo maledetto sole africano”, non si ricordava neanche perché, era un gioco tra loro.
Buttò la bottiglia fuori dal finestrino, con un rutto da tedesco in gita d’istruzione.
“Per l’uomo dello sci d’acqua” disse guardandola rotolare verso la nuvola gialla che li inseguiva.

Passarono l’ennesimo cartello giallo raffigurante un canguro.
“La verità è che in Australia non ci sono canguri, non ci sono proprio animali” osservò Mauro.
“Quando torniamo in Italia mettiamo su qualcosa e ci facciamo un sacco di soldi” disse Adriano come se  ci fosse un nesso.
Si sopraffacevano di continuo, parlando, ognuno diceva quello che gli pareva, e ascoltava l’altro solo vagamente.
Però questo era un bell’argomento.
“Ci sono tanti di quei modi di fare soldi” rispose sicuro Adriano.
“Già” disse Mauro, col tono di uno che la sa lunga.
Non avevano in mente niente di preciso, gli sembrava tutto a portata di mano. Ostacoli non ne vedevano, percepivano la realtà a spezzoni, non come una concatenazione.
La vita non li aveva plasmati per il ragionamento.
Non stavano attenti.
La specie umana regrediva.
Però avevano ben chiaro in mente che non erano come i loro genitori, che sprecavano l’esistenza in cose inutili. Loro andavano diritti allo scopo.


 

C’era del filo spinato divelto.
Ora  Adriano un po’ rimpiangeva gli aborigeni che centinaia di chilometri prima li avevano fermati per chiedere soldi.  Lo aveva deluso il fatto di vederli appoggiati a una  macchina – scassata, ma una macchina – e per di più coi pantaloni, fermi davanti a un baracchino al margine della strada. Non dovevano stare nudi? Non sembravano molto “naturali”
Nel baracchino si vendevano anche code di canguro in scatola.
Sorridendo amichevole gli aveva detto “Andate a lavorare straccioni”. Ed era ripartito. Questo non lo avrebbe raccontato alle ragazze.
Ora avrebbe voluto vederli.
Ora non c’era nessuno.
“Non c’è mai un aborigeno quando ti serve” disse.
L’altro rispose a modo suo.

“Dobbiamo aprire anche noi un center di sport estremi, come quello dove lavora Tommaso” si illuminò Mauro, colpito da un pensiero preciso come da un corpo estraneo.
Oltre a essere almeno in teoria un informatico, era un ragazzone atletico, un maniaco di sport estremi. Tutti quelli che lo conoscevano pensavano che fosse molto avventuroso.
“Da noi però non ci sono coccodrilli” obiettò Adriano.
Mauro lo guardò schifato. “Imbecille, se non ci sono coccodrilli ci sarà qualcos’altro, basta inventarlo. Qualcosa di NUOVO, dico,  mica il salto con l’ elastico e cazzate simili. E poi una cosa sola non basta. Diversificare, bisogna. Sta’ sicuro che poi  queste caramelle  le piazziamo alla grande” e si palpò la tasca della giacca. “Integratori psicofisici” ridacchiò. “Il 50% lo fai tutto con gli integratori”.
“Ho sentito dire che ci sono i lupi ora da noi”.
“Macchè lupi. I lupi sono vecchi. A parte che non è che ci vogliono per forza degli animali. E poi – IDEONA CAZZO! -  possiamo anche comprare dei coccodrilli qui e poi  buttarli in qualche lago da noi, farebbe ancora più colpo”.
Forse per la tensione, Mauro stava secernendo più idee di quante ne avesse mai avute in tutta la sua vita. O magari erano i flussi  elettrici che uscivano da quella terra a stimolarlo.
“Potrebbe anche essere. Per lanciarlo dobbiamo inventarci qualcosa, andare in televisione, altrimenti è inutile. Hai visto quel cantante che ha ucciso la  sua tipa a forza di botte e dopo che l’ha uccisa i suoi dischi vendono quattro volte di più”.
“Devo ammazzare Marta?”
“Era per dire. Se non capisci…”
“Anche io dicevo per dire, e poi non abbiamo ancora fatto il disco”.

Adriano studiava filosofia e pensava che San Francesco fosse vissuto verso il 1700.
“Con le ragazze intellettuali devi dire di aver letto De Lillo, allora la danno via perché gli ricorda il lillo” questa l’aveva sentita in facoltà e la ripeteva spesso per fare bella figura.
Erano rampolli di famiglie benestanti, colte. Le madri non avevano problemi materiali e scrivevano romanzi contemporanei, oppure tessevano arazzi artistici con tecniche precolombiane. Si tenevano in forma. Frequentavano corsi di meditazione, veleggiando verso un florido intontimento precoce. I figli avevano trovato modi ancora più veloci per raggiungere la medesima meta. I padri non c’erano.

“Quello che ha fatto questa mappa è un pazzo” sentenziò Mauro.
Avrebbero dovuto trovare una città, e poi la fattoria enorme quanto la Lombardia dove il cugino di Mauro, Tommaso, lavorava come istruttore di sport estremi. Durante la stagione delle piogge per muoversi in quel  posto immenso  ti ci voleva l’idroplano.
“Anche questo non è che torni molto, disse Adriano, questo è il posto più arido che ho mai visto”.
“Magari quando piove è diverso” disse Mauro poco convinto.
Loro due a Tommaso gli stavano portando le caramelle sensazionali. A sentire il tipo  che gliele aveva date  erano state rubate nella base militare  di Camp Darby da una donna delle pulizie che si prostituiva anche coi frati. Ma sono le solite cose che si dicono tra ragazzi di buona famiglia che hanno studiato all’estero.
Comunque, non c’era traccia di fattorie, e neanche di città.
Enormi termitai sorgevano dalla terra. Mauro li guardava senza capirli, che cosa erano?  Volevano qualcosa da lui, quei cosi scuri?

Il GPS non funzionava.
Il cellulare non prendeva da centinia di chilometri.
Era come se quella terra non esistesse. O erano loro che non esistevano, là.

 “Alziamo” disse Adriano spostando a destra la levetta dell’aria condizionata. Si sentiva male. Soffriva di vertigini orizzontali, tutta quella pianura gli faceva venire voglia di buttarsi di sotto. Ma sotto dove.
Allora il suo piede accelerò.

Un’ombra volante sbucò dal nulla.

“Attento” urlò Mauro quando era troppo tardi. Un botto tremendo gli rintronò i testicoli. Travolsero l’ombra.

Il re dei canguri fece un balzo di almeno cinque metri. Per la prima volta nella sua carriera di canguro era un balzo che non aveva  deciso lui. Fu scagliato di lato da un forza aliena. Entrò in un sogno senza balzi.

“Cazzo se abbiamo investito un canguro” disse Adriano, gli tremavano ancora i polsi.
“Scendiamo”.
Avevano solo qualche livido.
“Ma da dove è venuto?”
veramente era assurdo. Come poteva essere sbucato all’improvviso, in quella pianura  vedevi tutto nel raggio di chilometri.
 
Girarono attorno alla salma, a piccoli passetti. Sembrava quasi ballassero. Non osavano avvicinarsi.
Però erano anche eccitati. Si sedevano, si rialzavano, scalpitavano.  Bevvero qualche altra birra senza dire:  “Ah questo maledetto sole africano”.

Mauro era il genio del gruppo e anche questa volta ebbe l’ispirazione:
“Facciamoci una foto col nostro canguro”.
Adriano riconobbe che era una trovata notevole.
“Poi la facciamo vedere a tutti. Una cosa del genere funziona più di De Lillo”.
“Potremmo usarla per il nostro Center di Sport Estremi. Me la vedo, la gigantografia all’ingresso”.
“Il Canguro Estremo, ci chiameremo”.
“Macchè. Non è abbastanza serio. Niente ironia. Sennò non ci crede nessuno. Non dobbiamo confondere le idee al nostro pubblico”.
Questa era una corretta intuizione. Un concetto per volta è anche troppo. Infatti non erano scemi. Erano solo deprivati, per sopravvivere in un mondo deprivato. E’ l’evoluzione.

Mauro si sfilò la magnifica giacca di pelle nera per farla indossare al cadavere. Quella sì che sarebbe stata una foto: loro due, gli eroi estremi e contemporanei, nella natura. E in mezzo il canguro con la giacca di pelle.

“Cazzo quanto pesa questo Gino” disse Adriano. Tutto ciò che non conoscevano lo chiamavano Gino, era un altro gioco tra loro.
“Ma sono di pietra i canguri, sbuffava Mauro, alla televisione sembrano più leggeri”.
Ansimarono, sudarono, si fecero male, e intanto dovevano vincere il ribrezzo e la paura. Ma questo non se lo dicevano.
Fuori dalla macchina si sentivano nudi, inermi, malati.  Credevano di essere turbati dall’assenza di sportelli e pareti metalliche tra loro e un eventuale attacco esterno, ma era soprattutto per la mancanza di aria condizionata che le zone profonde del loro cervello lanciavano grida d’allarme.

Alla fine ci riuscirono: il canguro indossava la formidabile giacca di pelle nera.
Adriano andò a prendere la macchina fotografica sul sedile posteriore, perduta sotto le copie di una rivista di Mauro: “Come farsi degli addominali strepitosi in due giorni”, “I sedici modi per farla impazzire a letto”, “Rinforza le tue braccia”, “Come stai a soldi?”, sulle copertine c’erano veramente titoli così. Adriano ironizzava, ma non perdeva occasione per sbirciarle. Sul sedile c’era anche qualche bottiglietta d’acqua: “La comoda bottiglia con il contenuto ideale per il tempo libero” c’era scritto.

“Sembra fatta per Gino, disse Mauro indicando la giacca, tagliata su misura”.
Il muso giaceva di lato nella polvere rossa e gialla, e dal naso partiva una ramificazione di sangue.
“Ci distendiamo accanto a Gino, io tengo la macchina fotografica e scatto” disse Adriano tutto giulivo.
“Togli il sangue col fazzoletto, diremo che era vivo, che avevamo fatto amicizia tipo San Francesco”.
“Ma toglilo te il sangue”.
“Sei te che hai un fazzoletto”
“Allora te lo presto”
“Aspetta” Mauro raddrizzò il muso, per dargli un’aria  meno morta e nascondere il sangue. Si tolse gli occhiali da sole e li mise al canguro.
“Questo si chiama arte” commentò fiero.
“Bè,  mettiamoci in posa”.
“Prima fumo”.

Mauro si distese ridacchiando. Ormai a suo agio con la salma.
Il canguro aprì gli occhi, ma loro non lo videro, per via degli occhiali da sole. Pur stordito, si sollevò con un balzo prodigioso, spappolando la coscia di Mauro. Adriano sentì qualcosa che gli sfondava lo stomaco.
Il canguro si allontanò a balzi, a incredibile velocità, ma anche con una certa calma, dignitosamente. Lo videro sparire verso le montagne rosse,  con addosso la sua giacca e i suoi occhiali da sole.

Mentre ancora il canguro era visibile e loro si torcevano nel dolore, Adriano disse: “Le chiavi… Le chiavi della macchina sono rimaste nella tasca della giacca”.
Un barlume di attenzione si insinuò nelle loro menti. Guardarono la traccia della lumaca. Erano soli, erano feriti, erano gementi. Erano FERMI, nel centro di un mondo che non esisteva.
Erano perduti.

Qualche ora più tardi Adriano biascicò come un vecchio: “C’erano anche i miei documenti, nella giacca”.
Per fortuna, nei territori estremi in cui stavano scivolando, è raro che qualcuno ti chieda i documenti.

 

Era sconvolto, la terribile botta presa aveva lasciato il segno, devastando il suo senso dell’orientamento. E poi - mentre gli occhiali li aveva persi quasi subito - quella giacca lo stringeva, lo torturava, gli rendeva difficile il respiro.
cercò di farla impigliare a un arbusto scheletrico, si rotolò, si inarcò, provò   a spaccarla dall’interno con la coda. Macchè, tutto inutile.
Non restava che andare.

Quattro dingo gialli in agguato più avanti si preparavano a avventarsi sull’animale che nonostante la foga forsennata, o a causa  della foga forsennata, aveva l’aria di una facile preda. E il canguro era davvero in affanno, pochissimo ossigeno arrivava al suo cervello, di tutti quei respiri veloci.
Passò da dove avevano previsto che passasse.
Sbucarono dal boschetto degli eucalipti e gli furono addosso, quasi giocassero.
Il canguro invece di rallentare accelerò, intanto combatteva. Non vedeva i dingo, li sentiva, si muoveva freneticamente in un buio rosso. Ribaltò uno di quei cosi gialli  con la coda,  un altro lo colpì con le zampe, come fosse un pugile. Gli altri due, da dietro,  azzannarono il marsupiale per finirlo. Ma la giacca era molto robusta, e attutì i morsi. Il canguro quasi non li sentì. I dingo se ne accorsero, non era mai accaduto una cosa del genere, mai, neanche nei secoli passati, le loro cellule lo sapevano. MAI, ripetevano  E allora  si fermarono, interdetti, come se qualcuno avesse violato un patto. Quando ripresero l’inseguimento il canguro era molto più avanti, sembrava un miraggio.

Qualcuno aveva visto tutto, fin dall’inizio. Erano tre aborigeni pitturati di bianco che stavano salendo sulla montagna sacra, seguendo le Orme degli Antenati. Erano i guardiani di quei luoghi, vedevano biforcazioni invisibili. Sapevano che il loro popolo non era morto. Non erano loro a essere ridicoli o pittoreschi. Custodivano i segreti, in attesa di tempi migliori. Perché i tempi migliori prima o poi arrivano sempre, come i peggiori, del resto.

Il più anziano dei tre si chiese se quello che avevano visto fosse un prodigio buono o cattivo.

Di botto fu stanco davvero. Si accasciò,  per morire. Si piegò di lato, adagiandosi nella sera, che lo reggeva piano, come se avesse una tenue consistenza. Presto sarebbero sorti dalle crepe della terra i predatori notturni. I carnefici.
Era normale,  così era stato da sempre. Ma era terribile.
 In quel momento rotolò una pallina colorata, dalla tasca della giacca.
Il canguro la guardò, incuriosito, nonostante la fine ormai prossima. Poi un’altra pallina rotolò, e dopo un breve giro si unì alla prima. Bellissime, scintillarono.
Il canguro rialzò il collo, dolcemente.
Dilatò quegli occhioni languidi da cerbiatto ingrassato. Ripensò ai suoi affetti, ormai irraggiungibili.
Doveva lottare ancora, appigliarsi a tutto.
Tentennò, il capo, e un osservatore umano avrebbe detto che faceva segno di sì.
Poi mangiò le palline.

Nella notte furono i tre aborigeni, i guardiani delle Orme degli Antenati, a proteggerlo dai carnefici animali ed umani. Vegliarono su di lui come madri. Fecero un cerchio di fuoco contro le ombre, lui non si svegliò. Avevano deciso che, anche se non sapevano se fosse un prodigio buono o cattivo, un prodigio va sempre difeso. Il canguro non lo seppe mai.

Passò un aereo ma il pilota non si accorse di nulla, perché aveva gli occhi fissi sulla strumentazione. Gli altimetri lo eccitavano.

Quando si svegliò, un calore e una forza meravigliosa lo riempivano, spingevano dall’interno, come se partorisse se stesso. Qualcosa che non aveva mai provato. Era pieno di nuovi sogni.
Gli sembrava di vedere tutto con una nuova, impressionante chiarezza. Però non sapeva dov’era, perché nella confusione si era spinto ben oltre i territori consueti. E poi indietro c’erano i dingo, che lo aspettavano. Brulicavano all’orizzonte, perché quei quattro ne avevano chiamati altri. Se voleva tornare a casa, doveva fare un lungo giro.

Nei  giorni successivi furono in molti a vedere il canguro con la giacca. Lo videro i disgraziati macilenti che mangiavano coda di canguro in scatola ai baracchini agli angoli della strada ossessivamente diritta e lo videro i ricchi in vacanza permanente. Lo videro gli uomini che, sotto grandi cappelli e sopra bianchi calzini, lavoravano in ranch vasti come la Sicilia. Lo vide una comitiva di dementi che erano venuti da chissà dove per unire il cristianesimo alle mitologie aborigene, illuminare l’uno con le altre e possibilmente avere rapporti sessuali.
Così nacque la leggenda del canguro errante, imprendibile, solitario, dotato di una forza innaturale. Ma non subito. Nacque anni dopo. Perché i più lo avevano visto solo per un attimo, e dissero di averlo visto solo quando lo sentirono dire da altri. E magari in  alcuni casi non era neppure vero.
Ma ognuno, anche il più rozzo e idiota e col fuoristrada più grosso pieno di Gatorade e opuscoli sui corsi di sopravvivenza, trovava in quell’apparizione un significato riposto, meraviglioso,  che riguardava lui solamente.

La giacca non lo torturava più. Le cuciture  si erano allentate, e qua e là si erano prodotti dei piccoli strappi. Ci stava quasi bene.
Non sentiva il bisogno di mangiare, era sempre più magro, a parte il sedere voluminoso. Solo, a volte, si fermava a bere a qualche pozza, sotto lo sguardo attonito dei varani.
Le cose cambiavano sotto i suoi balzi furiosi.
Vide  animali che non aveva mai visto,  ma che non indossavano una giacca come la sua. Vide la vegetazione  aumentare e le pozze farsi più grandi, atterrò sulla testa di un coccodrillo credendolo un isolotto e balzò via, lasciandolo interdetto per due giorni.
Incontrò canguri che non considerò, perché andavano troppo piano ed erano di un colore diverso, incontrò altri dingo, ma ormai non gli facevano più paura. Atterriti dal suo sguardo spiritato, si scansavano quando passava.
Uno invece lo aggredì, e il canguro balzò in una pozza profonda, l’acqua gli arrivava al petto, ma il dingo  l’aveva azzannato a una spalla e non lo mollava. Allora il canguro si abbassò e gli tenne la testa in  acqua con gli artigli fino a affogarlo.
Costeggiò  sterminate recinzioni. Cercarono di prenderlo, per allevarlo, mangiarlo e vendere la sua pelle. Ma non lo presero.
Si nascose dietro una pompa di benzina arruginita  e dentro la carcassa di un aereo.
Attraversò un deserto che  sembrava vuoto invece era pieno.
Varcò crepacci e paludi.

Alla fine del terzo giorno apparve una città.


Era una periferia sfasciata, coi muri delle case sottili e barcollanti. Le finestre al piano terra erano tutte rotte, rattoppate con lo scotch e il cartone. Ai piani alti stavano i ricchi che scendevano per divertirsi. Gli alberi delle piazze erano gremiti di pappagallini rumorosi.
Gli angoli erano pieni di ubriachi e nessuno faceva niente, oppure facevano finta, perché i ricchi erano troppo ricchi e i poveri troppo poveri. Per i più non c’era verso di fare niente.

Nelle crepe della città si annidavano conigli giganti,  emù, pitoni verdi, brolghe dalle lunghe zampe, moloch spinosi, varani, clamidosauri, volpi volanti che stridevano al tramonto fino a assordarti.  Gli uomini erano confusi e, per quanto tutti, dall’adolescenza in poi, andassero in giro armati, non riuscivano più a sterminarli, come un tempo. Non erano più capaci di vederli.
Il canguro non si era mai trovato in un luogo così selvaggio. Si  confuse  nella bolgia di animali vivi e genti moribonde.

Però un canguro con la giacca alla fine lo noti, diciamolo. Fu messa una taglia su di lui. Ad alcuni improvvisamente parve importante catturarlo o ucciderlo. Si appostava sotto le macchine o su capanni sopraelevati, approntavano trappole, buche piene di colla, tagliole. Certi lo volevano vivo, per farlo combattere sui ring clandestini e scommettere.  I più vili, e furono molti, misero esche avvelenate.
Così per breve tempo la loro vita fu piena, ma le trappole rimanevano vuote.

Ogni tanto si piegava e ne faceva rotolare una dalla tasca. Quelle palline colorate, irrilivevanti e tossiche per un organismo umano, davano al canguro forza e attenzione, lo rendevano ardente, imprendibile. Era come se il canguro fosse nato per mangiare quelle palline e diventare un dio. La Natura manifestava anche in questo modo la sua forza per noi imprevedibile. Come se l’uomo fosse sceso dagli alberi e avesse percorso la sua incredibile strada evolutiva solo per fornire palline al canguro, infine, un giorno.
Tutto questo non sarebbe bastato.
Ma gli aborigeni che lo avevano visto all’inizio, i guardiani delle Orme degli Antenati, pitturati di bianco, attraverso gli specchi ne avvertirono altri, e così via, in una catena di segnali luminosi che arrivò fino alla città sfasciata. Dunque alcuni, mentre fingevano di dargli la caccia, in realtà lo proteggevano.
Le notti risuonavano dei lamenti dei disperati e degli schiamazzi dei festeggianti, nessuno dei quali lavorava, in attesa di chissà cosa, forse di un canguro.  In queste lunghe notti quelli che occultamente lo proteggevano disinnescarono le trappole, svuotarono le buche di colla, fecero crollare i capanni sopraelevati, stordirono un cacciatore che stava per sparargli alla schiena.

                                                        
Quando lo sconvolgimento della botta cominciò a dissolversi, il canguro decise che l’ignoto non gli piaceva. Il branco lo aspettava. Al mattino lasciò la città e puntò nuovamente verso sud, ma con un altro giro.   Si sentiva bene nella sua giacca.
Possibilità illimitate si aprivano davanti a lui. Se sbagliava direzione adesso non sarebbe tornato mai più.
Passò distese erbose, rade boscaglie. Entrò nella regione delle acque. Saltava inclinato, stringendo al petto gli arti anteriori. Quando era in movimento le mosche e i tafani non riuscivano a stargli dietro.
Poi si fermò, ritto sulle zampe e sulla coda.
Gli uccellini pigliamosche lo difesero dagli insetti.
E stette così, come una divinità a tre zampe attorniata dagli angioletti, attento a ogni suono, per decidere la direzione.


“Il classico arbalete resta il migliore, ha la spinta iniziale più potente di qualsiasi altro fucile subacqueo”  disse Tommaso tendendo l’elastico di caucciù con l’avambraccio guizzante di muscoli. “È dalla spinta iniziale che dipende tutto, in casi come questi” aggiunse con l’aria grave di chi rivela la verità a un novellino.
“Con quelli a aria compressa fai prima a ricaricarli” rispose  Bruce, un po’ offeso. E anche invidioso, perché lui un arbalete a lunga gittata non ce l’avrebbe fatta a caricarlo con quella disinvoltura, fuori dall’acqua poi. Anzi, la verità è che non ce l’avrebbe fatta proprio, con quelle braccia da inglese.
“Qua se sbagli non hai il tempo di ricaricare” sentenziò Tommaso. “Sbrigatevi. Prima si entra è meglio è” ordinò.
Tommaso era l’istruttore.
“Me lo immaginavo più grosso. Sei sicuro che ci siano?” disse Wolfgang, temendo una delusione. Si riferiva allo specchio d’acqua verde scuro dove sembrava ansioso immergersi. Era un po’ meno di un laghetto, ma era collegato  ad altri corsi d’acqua.
“Tranquillo che li becchiamo” lo rassicurò Tommaso.
Bruce  guardava inquieto le ombre sotto la superficie.
Si preparavano per un tipo speciale di pesca subacquea: la caccia ai coccodrilli.

Wolfgang mise i piedi in acqua, per bagnarli prima di calzare le pinne.
“Non farlo” disse Tommaso con aria virile. “Possono arrivare molto velocemente. Pensa che  a volte sbucano dall’acqua e inseguono i ciclisti. E’ per questo che carico il fucile prima di entrare, non si sa mai”.
In verità non c’erano rischi e Tommaso lo sapeva. Andavano a caccia di coccodrilli di acqua dolce, piccoli, col muso lungo e fragile. Mentre quello veramente pericoloso è il “saltie”, il coccodrillo marino, che risale i fiumi per chilometri. Tommaso però giocava sull’equivoco. Qualche cliente un po’ più sveglio lo intuiva, ma preferiva non approfondire, così al ritorno poteva fare racconti eroici. L’equivoco era compreso nel prezzo, salato come il coccodrillo che non avrebbero mai incontrato.
Tommaso conosceva le esigenze narrative dei suoi clienti e raccontò di Dolce Cuore, lo raccontava sempre a tutti. Dolce cuore era un coccodrillo marino lungo 4 metri che negli anni Sessanta fece a pezzi 15 barche e mangiò i passeggeri. Ora è imbalsamato in un museo ed è il nome di un drink. “Chissà se non era dolce” concludeva sempre ridendo, e così fece anche stavolta.
Quel racconto funzionava, ora anche Wolfgang era meno ottusamente ansioso di entrare in acqua.
Bè in teoria un coccodrillo marino avrebbe potuto risalire anche fin là,  ma in realtà non c’erano neanche i cartelli col divieto di balneazione e il profilo del coccodrillo. Per cui…

Tommaso veniva dalla Brianza e si riteneva il depositario dei segreti dell’Australia. Per un po’ aveva fatto l’istruttore subacqueo in Italia, immergendosi soprattutto nelle piscine. Ma in Italia un istruttore subacqueo è uno schiavo. La pesca ai coccodrilli invece rendeva,  la praticavano in apnea, le profondità erano minime, le donne non sapevano di cloro.
Lui portava la civiltà, il futuro. “Questo paese è pieno di risorse” diceva, perché lo ripetevano tutti. In realtà capiva quanto capivano gli inglesi che arrivati in Australia vedendo strani animali saltanti  chiesero agli aborigeni “Come si chiamano quegtli animali là?” e gli aborigeni risposero “Non capisco quello che dici” che in aborigeno suonava più o meno “Can  Gu Ri” e allora gli inglesi dissero “Ah, ho capito, si chiamano canguri”.

“Se volete provare queste bombe extra, disse tirando fuori delle pasticche con una specie di gioco di prestigio. Sono un po’ care, ma vi garantisco che funzionano”. Gli spiegò che potenziavano enormemente le capacità animalesche richieste per cacciare, e con raffinate allusioni fece capire che potenziavano anche le energie sessuali.
In realtà non servivano a un cazzo, a parte far venire il mal di stomaco, ma Tommaso sapeva che a questo punto dell’avventura i clienti, impressionati da quello che stavano per fare, erano pronti a qualche spesuccia in più.
Finse di buttarne giù una.

Scivolarono tra le mangrovie in silenzio.
Si fa per dire.
In questi casi c’è sempre un fesso che ha messo troppi pesi nella cintura ed è  costretto a tornare indietro tra spruzzi e imprecazioni. Stavolta era Bruce.
“Non sono abituato a una muta così leggera, non ha abbastanza spinta positiva”. Le gente quando è in difficoltà pronuncia frasi incredibili, molto compite.
Mentre Tommaso gli sfilava un chilo dalla cintura, Bruce con quelle lunghe braccia riuscì a raggiungere la borsa e a scolarsi una gozzata di Gatorade,  la mamma dell’avventuriero contemporaneo.
 Tommaso si accorse che anche Wolfgang era uscito,  aveva paura a restare in acqua da solo. Facevano un gran casino, puntando verso l’acqua il fucile carico.
“Rientriamo” disse nervoso. “Rispettate le posizioni”.

Era cinque minuti che stavano a pancia in giù, in superficie, non vedevano nulla. Erano in un canale stretto. L’acqua era torbida e densa. Pesante. Fetida.
Non è che pinneggiassero, alzavano e abbassavano le caviglie delicatamente, in attesa di qualcosa.
Tutte le ombre sembravano vive, salivano dal pulviscolo in sospensione.
Wolfgang compensava continuamente, per essere pronto a scendere in qualsiasi momento. Ma non si azzardava a scendere.
Bruce vedeva il fucile fino a metà dell’asta. Il resto si perdeva nella nebbia. Pensò a Dolce Cuore. Con quella visibilità, i coccodrilli potevano sbucare in qualsiasi momento. L’ultimo momento, in ogni caso.
Con quella visibilità anche tutte le posizioni stabilite non servivano a nulla.

Qualche picchiata nel fango e poi tra dieci minuti li porto nell’acqua limpida, pensò Tommaso guardando l’orologio. All’inizio li portava sempre nell’acqua torbida, lì nel canale non c’era verso di prendere nulla, naturalmente, ma lo faceva per dare un po’ d’emozione ai clienti. Poi passavano all’acqua cosiddetta limpida, dove qualcosa si vedeva, c’era spazio ed era possibile cacciare.
Richiamò l’attenzione battendo col coltello sul fucile. Tirarono la testa fuori dall’acqua.
“Forza, che avete? Cominciamo a scendere”. Si fingeva sorpreso, per il fatto che non avessero cominciato a scendere a turno, come concordato, mentre sapeva che era normale. Succedeva sempre così. Avevano bisogno di un incoraggiamento.
Notò che Bruce aveva la maschera mezza allagata ma non la svuotava, segno che non era per nulla tranquillo.
Tommaso indicò l’acqua con il pollice e Wolfgang fece la prima capriola.

Il canguro passava di là. La giacca era diventata una seconda pelle.
Vide il canale stretto e saltò. Volava sull’acqua. Si inclinò per evitare una ragnatela immensa. Gli dava noia saltare nelle ragnatele, soprattutto finirci dentro con la faccia. Le chiavi della macchina di Mauro caddero dalla tasca della giacca.
Pluf.
E le chiavi sprofondarono con calma, scintillando.

Bruce sfiorò il fondo molle, si stava rilassando. Devo trovare una pietra da aggiungere alla zavorra, pensò, sono troppo leggero. Dopo la tensione iniziale, cominciava a capire che lì non c’era nulla, assolutamente nulla di pericoloso.
Solo che si sbagliava.
Vide lo scintillìo dell’occhio, un occhio enorme. Era vicinissimo. Poteva essere solo un coccodrillo marino che scendeva su di lui, mosso da una fame preistorica. Allora sparò.
Un istante dopo le chiavi gli passarono a cinque centimetri dal naso e capì il suo errore. Ma era troppo tardi. L’arpione era schizzato su e aveva trapassato Wolfgang, che stava scendendo, come previsto dai turni. Wolfgang nello spasimo aveva contratto la mano e premuto il grilletto, così che ora anche Bruce si trovava con un’asta di metallo nella pancia, sul fondale melmoso. Ma il cadavere non risalì: con l’aggiunta dell’arpione,  la zavorra era perfetta.


 

Era riuscito a tornare.
I guardiani delle Orme degli Antenati lo salutarono di lontano, dall’alto, senza che lui li vedesse.
Rallentò. Presto avrebbe trovato il branco. Allora si sfilò delicatamente la giacca, tirando una manica con i denti. Ormai era talmente sfilacciata che non era difficile. La depose piano a terra. Ci strusciò il muso e se ne andò. A un occhio umano, sarebbe parso un tenero addio.
Sgranocchiò un ramo con qualche formica del miele

                                                                                     FINE





 
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