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Intervista a Furio Scarpelli

a cura di Sara Mamone
  Furio Scarpelli
Data di pubblicazione su web 17/05/2010  

In occasione della scomparsa dello scrittore e sceneggiatore Furio Scarpelli pubblichiamo una vecchi intervista di Sara Mamone apparsa in "Quaderni di Teatro", a. IX, n. 35, febbraio 1987, che affronta i temi della drammaturgia del cinema e del teatro.

 

 

D. C'è teatro nella sua formazione?

R. Penso di sì. Teatro come lettura, come frequentazione, anche come ispirazione. E come pratica: feci scenografia e costume. Se devo dirla tutta, vinsi anche un premio annuale, in coppia con Michele Majorana, per la scenografia. Durante l'occupazione tedesca fu progettato il set­timanale «Cantachiaro» (Raffaello Ferruzzi, Franco Monicelli), di cui ero redattore, che uscì con la Liberazione e dal quale poi nacquero due riviste teatrali in prosa. Questa la preistoria. Il nostro primo cinema fu teatrale. E lo è ancora, in grande misura. Fino a qualche anno fa questo dalla critica cinematografica era ritenuto una “colpa”. Lo “specifico filmico" è stato per lungo tempo la malattia infantile del cinema. Il cinema che aveva preso via via il posto del teatro, per forza (e per fortuna) se ne immedesimava. Certo questo discorso non vale per tutto il cinema neorealistico drammatico, ma per la commedia le cose stanno proprio così.

 

D. Era, ed è, un cinema molto parlato. Per questo lo ritiene teatrale?

R. Anche per questo. Ma fondamentalmente perché ancora prima di cominciare a lavorare si dimenticava, e si dimentica, la destinazione cinematografica. Questo è fondamentale. Psicologie, caratteri, dialoghi, eventi scaturiti da rapporti fra i personaggi. Ma questo è teatro! Sa quante volte ce lo siamo sentiti dire? E allora ci preoccupavamo, magari alla fine del lavoro, di infilarci un po' di “azione”. Ma non andiamo molto più in là di un personaggio che corre per la strada e che magari inciampa. Dedicarsi esclusivamente ai personaggi all’interno di una struttura narrativa identificabile e domestica è praticato anche dai nostri registi. L'immagine intesa come invenzione cinematografica, la tediosa “bella immagine”, la trovata ottica, non mi ci ha mai tentato. Credo siano false conquiste, di una noia mortale. Per dire la verità mi opprimono anche le trovate sceniche teatrali, il grande genia­le macchinismo di alcune messe in scena di questi ultimi anni ha prodotto soltanto noia allo stato puro. La fantasia è assai spesso noio­sissima. Diverte soltanto colui che la esibisce. È soltanto il pudore che fa accettare le nostre idee dagli altri.

 

D. Riprendiamo il filo. Fa cinema come si potrebbe fare teatro, è questo che vuol dire?

R. Più o meno.

 

D. Ma il suo rapporto col teatro-teatro?

R. Torniamo ancora alla preistoria. L'ho detto, era di frequentazio­ne amorosa. Nel dopoguerra ogni prima teatrale era davvero un even­to. Tornava in Italia il grande repertorio straniero: americano, france­se, tedesco, inglese, tutto ciò che il fascismo aveva vietato. Si discute­va dopo ogni grande prima. Per esempio nella sala del piccolo Arlec­chino. Dibattiti, anche zuffe. Ricordo quella seguita a Le Nozze di Figaro, messa in scena da Visconti. Insomma il teatro faceva parte della nostra vita professionale anche come ispirazione. Inutile ricordare quanti grande attori, comici e no, venivano dal teatro e continuavano a praticarlo.

 

D. Perché il vostro interesse per il teatro non si è trasformato in una pratica professionale?

R. Alcune delle ragioni le ho dette. Posso aggiungere che la prove­nienza teatrale di Age era anche più diretta della mia, la sua era, ed è, una famiglia di attori teatrali. Ma torniamo alla domanda... Posso rispondere con altre domande, a me stesso? Forse per un eccessivo “rispetto”? Si riteneva che il teatro richiedesse un impegno eccessivo? Ispirazioni e tempi di elaborazioni particolari? Nel ventennio se­guente il dopoguerra si inventava un cinema «giornaliero». Nessuno oggi è più tanto provinciale e superficiale da sorridere alla grande codificazione di Zavattini: drammatizzare la realtà di tutti i giorni. Oggi, che questa impresa non riesce quasi più a nessuno, tranne, pare, a qualche buon autore straniero, ci si rende conto che essa rappresenta una vetta difficilissima da conquistare non una enunciazione spicciola. Ecco, di quella maniera di fare cinema faceva parte un modo mentale che non saprei come definire, forse elaborata improvvisazione; insom­ma qualcosa con la quale i tempi e gli spazi teatrali forse non andava­no d’accordo. Ma aggiungerei che era presente, forse in forma non sempre limpida, un intento socializzante, una spinta verso l'esterno, un’intenzione politica, diciamo, cui era necessaria la possibilità divulga­tiva del mezzo cinematografico. Il nostro cinema nasceva con una nuo­va impronta “popolare” (che parolaccia, mi si perdoni). Si aveva la convinzione, non so poi quanto sbagliata, che il teatro non consentisse una sufficiente salvaguardia di questo intento.

 

D. Pensavate che il teatro si dovesse scrivere con la penna d'oca?

R. Forse. Ma soprattutto c’era da affrontare l'immediato. Mentre scri­vevamo le nostre commedie per il cinema non le ritenevamo specifica­mente opere. Le consideravamo, forse, momenti paralleli alla vita lungo il binario del comico e dell'ironico. Per opere intendo imprese che restano, scritte perché restino. Credo di poter dire che non aveva­mo né questa intenzione né questa speranza.

 

D. Parliamo ancora del teatro, di questo rapporto-non rapporto fra teatro-teatro e cinema teatrale.

R. Penso che oggi, se ci fosse un buon teatro, ci sarebbe anche un miglior cinema.

 

D. Perché?

R. Prenda il cinema inglese, e certo buon cinema americano. Quan­to teatro hanno dietro? Soprattutto quanti autori di teatro che scri­vono per il cinema? I dialoghi, i dialoghi! Chi li insegna a fare se non il teatro, o l'amore per il teatro? I film che mi piacciono di più sono quelli che sembrano teatro. Corse, sparatorie e astronomia diver­tono, certo, ma eccezionalmente. Forse non si dice astronomia, forse fantasia astrale, stellarismo. Costituisce una delle tante letterature cinematografiche, ma è solo per la tenerezza che coltiviamo verso il nostro infantilismo che ci può capitare di dare ancora un’occhiata a Salgari. Oggi, quello che ci interessa di Ombre Rosse è ancora ciò che avviene dentro la diligenza (che è più piccola di un palcoscenico). Ma del resto non ci giurerei.

 

D. Quale il rapporto fra una sceneggiatura e un copione teatrale?

R. La cosiddetta tecnica della sceneggiatura, intesa come alcuni la intendono, come un’arte in sé, è una sciocchezza. La sceneggiatura è il contenitore-struttura di una vicenda che preesiste e di cui deve umil­mente prendere la forma. Ogni storia ha la sua sceneggiatura, che promana direttamente dallo spirito di quella. Un buon narratore è più sceneggiatore di uno sceneggiatore puro e semplice. Cechov è il mo­dello di tutti noi, la lettura e la rilettura delle sue opere è costante anche se, ovviamente, non c'è filiazione diretta. Cechov sarebbe stato uno sceneggiatore. Michailkov lo ha dimostrato ampiamente. Ecco, il cinema di Michailkov è teatro o è cinema? È buon cinema anche perché è così teatrale. Quanti guai all’ombra della cosiddetta “sceneg­giatura di ferro”!

 

D. Quali delle sue sceneggiature sarebbero traducibili in teatro?

R. Non so con quale risultato, ma parecchie.

 

D. Ma non ha preferito il cinema perché si guadagnava di più che col teatro?

R. Nessuno mi ha mai posto di fronte a questo genere di scelta. Negli anni di cui si parla non si guadagnava molto né con il teatro né con il cinema.

 

D. Qual è stata la funzione degli sceneggiatori nel cinema italiano?

R. Forse il lavoro che molti di essi hanno svolto è assai poco specifico, non lo si può definire in poche parole. Il loro è stato un lavoro rispondente al desiderio di rendersi utili ad un’opera collettiva. Molti sceneggiatori hanno portato nel cinema tensione culturale e politica, spirito sociale, l’attenzione, come si diceva, alla realtà, testimonianza. Oltre a costituire il tramite fra la biblioteca e il film. Il lavoro di Amidei, di Zavattini, di Suso Cecchi d’Amico, e altri, di Benvenuti e De Bernardi, di Age oltre che, modestamente, del sottoscritto, e certa­mente sto dimenticando un sacco di grandi colleghi, ha dato un appor­to fondamentale, penso di poter dire, ad identificabili forme cinema­tografiche per non dire estetiche.

 

D. Che cosa vi trattiene, oggi, individualmente e collettivamente, dallo scrivere per il teatro?

R. Non lo so... Forse ciò che ci trattiene potrebbe essere un certo modo di fare teatro oggi in Italia. Chi scrive un testo sapendo che un regista sovvertitore lo brucerà in sette giorni? Certi registi teatrali, qui da noi, sono pateticamente assai più solipsistici di quelli cinemato­grafici. Dico pateticamente perché non scrivono teatro, in genere; si limitano a trasformare quello scritto da altri. Il buon regista cinema­tografico sa scrivere. Quanto meno partecipa all'invenzione del testo. I nostri migliori registi sono abili scrittori di copioni, erano sceneggiatori e lo sono tutt’ora. Apra le pagine gialle alla lettera C. La voce comme­diografo manca. Credo sia una specie estinta a causa del regista teatra­le. Quel poco di buono che arriva sul palcoscenico certi giovani-attori­-registi se lo fanno da sé.

 

 

Profilo di Furio Scarpelli
di Claudio Carabba

 
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