In occasione della scomparsa dello scrittore e sceneggiatore Furio Scarpelli pubblichiamo una vecchi intervista di Sara Mamone apparsa in "Quaderni di Teatro", a. IX, n. 35, febbraio 1987, che affronta i temi della drammaturgia del cinema e del teatro.
D. C'è teatro nella sua formazione?
R. Penso di sì. Teatro come lettura, come frequentazione, anche come ispirazione. E come pratica: feci scenografia e costume. Se devo dirla tutta, vinsi anche un premio annuale, in coppia con Michele Majorana, per la scenografia. Durante l'occupazione tedesca fu progettato il settimanale «Cantachiaro» (Raffaello Ferruzzi, Franco Monicelli), di cui ero redattore, che uscì con la Liberazione e dal quale poi nacquero due riviste teatrali in prosa. Questa la preistoria. Il nostro primo cinema fu teatrale. E lo è ancora, in grande misura. Fino a qualche anno fa questo dalla critica cinematografica era ritenuto una “colpa”. Lo “specifico filmico" è stato per lungo tempo la malattia infantile del cinema. Il cinema che aveva preso via via il posto del teatro, per forza (e per fortuna) se ne immedesimava. Certo questo discorso non vale per tutto il cinema neorealistico drammatico, ma per la commedia le cose stanno proprio così.
D. Era, ed è, un cinema molto parlato. Per questo lo ritiene teatrale?
R. Anche per questo. Ma fondamentalmente perché ancora prima di cominciare a lavorare si dimenticava, e si dimentica, la destinazione cinematografica. Questo è fondamentale. Psicologie, caratteri, dialoghi, eventi scaturiti da rapporti fra i personaggi. Ma questo è teatro! Sa quante volte ce lo siamo sentiti dire? E allora ci preoccupavamo, magari alla fine del lavoro, di infilarci un po' di “azione”. Ma non andiamo molto più in là di un personaggio che corre per la strada e che magari inciampa. Dedicarsi esclusivamente ai personaggi allinterno di una struttura narrativa identificabile e domestica è praticato anche dai nostri registi. L'immagine intesa come invenzione cinematografica, la tediosa “bella immagine”, la trovata ottica, non mi ci ha mai tentato. Credo siano false conquiste, di una noia mortale. Per dire la verità mi opprimono anche le trovate sceniche teatrali, il grande geniale macchinismo di alcune messe in scena di questi ultimi anni ha prodotto soltanto noia allo stato puro. La fantasia è assai spesso noiosissima. Diverte soltanto colui che la esibisce. È soltanto il pudore che fa accettare le nostre idee dagli altri.
D. Riprendiamo il filo. Fa cinema come si potrebbe fare teatro, è questo che vuol dire?
R. Più o meno.
D. Ma il suo rapporto col teatro-teatro?
R. Torniamo ancora alla preistoria. L'ho detto, era di frequentazione amorosa. Nel dopoguerra ogni prima teatrale era davvero un evento. Tornava in Italia il grande repertorio straniero: americano, francese, tedesco, inglese, tutto ciò che il fascismo aveva vietato. Si discuteva dopo ogni grande prima. Per esempio nella sala del piccolo Arlecchino. Dibattiti, anche zuffe. Ricordo quella seguita a Le Nozze di Figaro, messa in scena da Visconti. Insomma il teatro faceva parte della nostra vita professionale anche come ispirazione. Inutile ricordare quanti grande attori, comici e no, venivano dal teatro e continuavano a praticarlo.
D. Perché il vostro interesse per il teatro non si è trasformato in una pratica professionale?
R. Alcune delle ragioni le ho dette. Posso aggiungere che la provenienza teatrale di Age era anche più diretta della mia, la sua era, ed è, una famiglia di attori teatrali. Ma torniamo alla domanda... Posso rispondere con altre domande, a me stesso? Forse per un eccessivo “rispetto”? Si riteneva che il teatro richiedesse un impegno eccessivo? Ispirazioni e tempi di elaborazioni particolari? Nel ventennio seguente il dopoguerra si inventava un cinema «giornaliero». Nessuno oggi è più tanto provinciale e superficiale da sorridere alla grande codificazione di Zavattini: drammatizzare la realtà di tutti i giorni. Oggi, che questa impresa non riesce quasi più a nessuno, tranne, pare, a qualche buon autore straniero, ci si rende conto che essa rappresenta una vetta difficilissima da conquistare non una enunciazione spicciola. Ecco, di quella maniera di fare cinema faceva parte un modo mentale che non saprei come definire, forse elaborata improvvisazione; insomma qualcosa con la quale i tempi e gli spazi teatrali forse non andavano daccordo. Ma aggiungerei che era presente, forse in forma non sempre limpida, un intento socializzante, una spinta verso l'esterno, unintenzione politica, diciamo, cui era necessaria la possibilità divulgativa del mezzo cinematografico. Il nostro cinema nasceva con una nuova impronta “popolare” (che parolaccia, mi si perdoni). Si aveva la convinzione, non so poi quanto sbagliata, che il teatro non consentisse una sufficiente salvaguardia di questo intento.
D. Pensavate che il teatro si dovesse scrivere con la penna d'oca?
R. Forse. Ma soprattutto cera da affrontare l'immediato. Mentre scrivevamo le nostre commedie per il cinema non le ritenevamo specificamente opere. Le consideravamo, forse, momenti paralleli alla vita lungo il binario del comico e dell'ironico. Per opere intendo imprese che restano, scritte perché restino. Credo di poter dire che non avevamo né questa intenzione né questa speranza.
D. Parliamo ancora del teatro, di questo rapporto-non rapporto fra teatro-teatro e cinema teatrale.
R. Penso che oggi, se ci fosse un buon teatro, ci sarebbe anche un miglior cinema.
D. Perché?
R. Prenda il cinema inglese, e certo buon cinema americano. Quanto teatro hanno dietro? Soprattutto quanti autori di teatro che scrivono per il cinema? I dialoghi, i dialoghi! Chi li insegna a fare se non il teatro, o l'amore per il teatro? I film che mi piacciono di più sono quelli che sembrano teatro. Corse, sparatorie e astronomia divertono, certo, ma eccezionalmente. Forse non si dice astronomia, forse fantasia astrale, stellarismo. Costituisce una delle tante letterature cinematografiche, ma è solo per la tenerezza che coltiviamo verso il nostro infantilismo che ci può capitare di dare ancora unocchiata a Salgari. Oggi, quello che ci interessa di Ombre Rosse è ancora ciò che avviene dentro la diligenza (che è più piccola di un palcoscenico). Ma del resto non ci giurerei.
D. Quale il rapporto fra una sceneggiatura e un copione teatrale?
R. La cosiddetta tecnica della sceneggiatura, intesa come alcuni la intendono, come unarte in sé, è una sciocchezza. La sceneggiatura è il contenitore-struttura di una vicenda che preesiste e di cui deve umilmente prendere la forma. Ogni storia ha la sua sceneggiatura, che promana direttamente dallo spirito di quella. Un buon narratore è più sceneggiatore di uno sceneggiatore puro e semplice. Cechov è il modello di tutti noi, la lettura e la rilettura delle sue opere è costante anche se, ovviamente, non c'è filiazione diretta. Cechov sarebbe stato uno sceneggiatore. Michailkov lo ha dimostrato ampiamente. Ecco, il cinema di Michailkov è teatro o è cinema? È buon cinema anche perché è così teatrale. Quanti guai allombra della cosiddetta “sceneggiatura di ferro”!
D. Quali delle sue sceneggiature sarebbero traducibili in teatro?
R. Non so con quale risultato, ma parecchie.
D. Ma non ha preferito il cinema perché si guadagnava di più che col teatro?
R. Nessuno mi ha mai posto di fronte a questo genere di scelta. Negli anni di cui si parla non si guadagnava molto né con il teatro né con il cinema.
D. Qual è stata la funzione degli sceneggiatori nel cinema italiano?
R. Forse il lavoro che molti di essi hanno svolto è assai poco specifico, non lo si può definire in poche parole. Il loro è stato un lavoro rispondente al desiderio di rendersi utili ad unopera collettiva. Molti sceneggiatori hanno portato nel cinema tensione culturale e politica, spirito sociale, lattenzione, come si diceva, alla realtà, testimonianza. Oltre a costituire il tramite fra la biblioteca e il film. Il lavoro di Amidei, di Zavattini, di Suso Cecchi dAmico, e altri, di Benvenuti e De Bernardi, di Age oltre che, modestamente, del sottoscritto, e certamente sto dimenticando un sacco di grandi colleghi, ha dato un apporto fondamentale, penso di poter dire, ad identificabili forme cinematografiche per non dire estetiche.
D. Che cosa vi trattiene, oggi, individualmente e collettivamente, dallo scrivere per il teatro?
R. Non lo so... Forse ciò che ci trattiene potrebbe essere un certo modo di fare teatro oggi in Italia. Chi scrive un testo sapendo che un regista sovvertitore lo brucerà in sette giorni? Certi registi teatrali, qui da noi, sono pateticamente assai più solipsistici di quelli cinematografici. Dico pateticamente perché non scrivono teatro, in genere; si limitano a trasformare quello scritto da altri. Il buon regista cinematografico sa scrivere. Quanto meno partecipa all'invenzione del testo. I nostri migliori registi sono abili scrittori di copioni, erano sceneggiatori e lo sono tuttora. Apra le pagine gialle alla lettera C. La voce commediografo manca. Credo sia una specie estinta a causa del regista teatrale. Quel poco di buono che arriva sul palcoscenico certi giovani-attori-registi se lo fanno da sé.
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