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Fare poesia con le capre

di Marco Luceri
  Una scena del film
Data di pubblicazione su web 17/05/2010  

Ed ecco arrivato il vero film rivelazione del Festival di Cannes: relegato, si fa per dire, nella «Quinzane de Réalisateurs», Le quattro volte del regista calabrese Michelangelo Frammartino è stato accolto con un applauso fragoroso. Cosa sorprendente per un film che fa della sua semplicità (nella messinscena come nell’impianto drammatico) non un limite, bensì una condizione necessaria per imbastire, senza l’ausilio di nessun dialogo, un discorso sul tempo, sul valore della vita e sull’ineluttabilità della morte.

 


Una scena del film: i carbonai

 

La storia, divisa in due parti, è ambientata in uno sperduto e semidisabitato paesino della Calabria, arroccato sulle montagne: nella prima parte il regista segue la lenta e ripetuta quotidianità di un pastore e del suo gregge di capre (il pascolo, il ritorno a casa, la mungitura nella stalla, la preghiera in chiesa, l’assunzione di uno strano medicinale come rito propiziatorio); nella seconda Frammartino racconta i primi giorni di vita di un tenero agnellino, dal momento del concepimento fino al suo precoce smarrirsi nel bosco durante il primo pascolo.

 


Il gregge

 

Se nel primo segmento il tono è quello distaccato di chi racconta un mondo che non c’è più e in cui la sopravvivenza del mito, pur importante, è rivelata attraverso i suoi aspetti più comici (si veda l’esilarante scena della processione o quella delle capre che invadono le case), che precedono il dolore e il non-sense della morte, è nella seconda parte che il regista calabrese concentra il pathos della narrazione. Seguendo la venuta al mondo dell’agnellino, la sua fatica per conquistarsi un posto nel mondo, la sua disperazione per essersi trovato solo e inascoltato nel momento più difficile, Frammartino fa un’operazione di antropomorfizzazione originale e imprevedibile che, sfruttando il meccanismo della pietas tipico del melodramma, punta dritto alla commozione dello spettatore.

 


Il castagno

 

Attenzione, però. Non si tratta di imbastire un pietismo strappalacrime, ma di ricollegare la piccola storia dell’agnello e del pastore a un discorso molto più grande sul valore della Natura: splendida in questo senso l’immagine del grande abete nel bosco, che agli occhi della povera bestia prima appare come una presenza oscura e minacciosa, poi come un sicuro riparo dalle intemperie, prima che arrivi l’uomo ad abbatterlo e a servirsene come totem per un antico rito. Anche l’albero, alla fine, verrà tumulato per sempre, come prima era successo al pastore e come probabilmente era accaduto all’agnello. La Natura, in sostanza, si riprende tutto. Misteriosa e ineffabile.

Le quattro volte
cast cast & credits
 


Locandina



 
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