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Memorial Scarpelli

di Claudio Carabba
  Furio Scarpelli
Data di pubblicazione su web 10/05/2010  
Ora che sono tutti partiti per i pascoli del cielo, forse finirà la strana discussione su quale sia stata la coppia regina (i padri nobili) della commedia italiana: Age & Scarpelli o i due grandi toscani Benvenuti & De  Bernardi? Almeno adesso non facciamo classifiche, meglio dire che tutti insieme hanno contribuito a formare una scuola di racconto ed ironica riflessione sulla nostra bella società, e che aspettano ancora allievi ed eredi all’altezza. Capita, purtroppo, anche in altri campi, non solo nell’arte della sceneggiatura. L’ultimo ad andarsene, stancato dagli anni passati, è stato Furio Scarpelli che era nato a Roma (nel 1919) e lì  aveva sempre vissuto, prima lavorando da solo, (specialmente come umorista e disegnatore nella scuderia  del «Travaso», allegro e un tempo popolarissimo giornale satirico fondato da suo padre, Filiberto) e poi, sin dalla fine degli anni quaranta in coppia con Agenore Incrocci, detto appunto Age.

I filologi della scrittura cinematografica sanno forse distinguere l’apporto di Scarpelli da quello di Age; io francamente non sono in grado. Sulla base di alcune testimonianze posso ipotizzare che Furio S. fosse l’anima più “impegnata” (culturalmente  e politicamente), del tandem, ma non ci potrei giurare: come succede sempre nelle coppie ben affiatate, è consigliabile considerare il loro lavoro un blocco unico. La prima sceneggiatura ufficialmente firmata da Age e Scarpelli è l’audace (travolgente) Totò cerca casa (1949) diretto da un altro memorabile duo, il più “vecchio” Steno e il giovane Monicelli. Da allora, sino al termine del decennio ottanta (poi poco o niente; la pensione più o meno forzata vale anche per i maestri-artigiani del cinema) la loro carriera è una catena di successi, con diverse puntate verso il capolavoro. Al di là di alcune fra le migliori farse di Totò, Age e Scarpelli dettero il loro meglio proprio con Monicelli (I soliti ignoti, La grande guerra, I Compagni, L’armata  Brancaleone, così, tanto per ricordare), con Comencini (l’attualissimo Tutti a casa), con Dino Risi (I mostri) e con Pietro Germi (Sedotta e abbandonata). Mi fermo qui, perché la lista aurea delle commedie, dolci o amare, è sterminata. Ma sono interessanti anche alcune divagazioni in altri generi, come il meló  lirico di Casa Ricordi di Carmine Gallone, che ha un incipit risorgimentale più  teso e incisivo rispetto a il contemporaneo (1954) Senso  di Visconti; o l’inaspettato viaggio nel West inesistente di Sergio Leone con Il buono, il brutto e cattivo.

Nonostante l’eccezionale esperienza, né Age né Scarpelli furono mai tentati dalla regia. Masolino D’Amico, che li conosceva bene per motivi di famiglia, ha scritto in un bel ricordo per «La stampa», che Scarpelli era “troppo riservato, troppo ironico, troppo poco disposto a imporsi (vogliamo dire, troppo fine?) per fare il regista”. Analogo concetto, con parole più umili, aveva espresso una volta lo stesso Furio S. in un’intervista: "Passare dalla sceneggiatura alla regia è un fatto di carattere, un fatto personale. Se uno si sente di doversi esprimere anche come  regista, è bene che lo faccia, come ha fatto il mio amico Scola… Se io e Age non abbiamo mai fatto regia, è perché non siamo dei frustrati, il mestiere di sceneggiatore ci piace, e anche quando abbiamo visto delle nostre sceneggiature molto calibrate, molto ben fatte, molto originali, diventare dei brutti film per colpa dei registi, non ci siamo mai detti: la prossima giriamola da soli".

Insomma Scarpelli scriveva (e pensava) bene. L’orgoglio per il lavoro, ben fatto o anche  geniale, non sconfinava mai nella “presunzione d’autore”. E in un’epoca in cui si tende a sopravvalutare parecchie  brutte sciocchezze in nome della passata sottovalutazione dei classici della “commedia all’italiana” (per una sorta di senso di colpa collettivo) mi  pare  bello e istruttivo chiudere con una sua cauta e molto ben calibrata, riflessione: “Che la commedia all’italiana abbia avuto una immediata utilità culturale, come qualche retore afferma, è quanto meno dubbio. A chi proclama che essa ha contribuito a mutare in senso democratico il paese, si dovrebbe chiedere come, allora, sarebbe stato il paese se non ci fosse stata la commedia all’italiana. Non mi sento di giurare che sarebbe stato peggio di com’è!”


 
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