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Il fatto di Coletto

di Lino Angiuli
  Il fatto di Coletto
Data di pubblicazione su web 30/04/2010  

Quello, mio padre – buonanima - lo sapeva che il pezzetto di terra che tenevamo in contrada Diavolicchio mi piaceva assai, pure se era pieno di chianconi, pure se era piccolo quanto un fazzoletto, pure se era parecchio lontano dal paese.

Un carrubo, due alberi due di mandorle mollesche, sette di olive coratine, un lazzeruolo, un sorbo, un pero bruttebbuono e un capolavoro di fico fiorone con dei frutti grandi quanto una testa di piccininno. Un pezzettino sì, ma non gli mancava proprio niente.

E siccome lo sapeva che mi piaceva assai, me lo ha lasciato in eredità quando ha fatto la divisione della roba prima di andarsene alla via dei pioppi.

Devi sapere che i miei fratelli sono andati molto meglio di me – puffe! – ma io sono rimasto contento lo stesso, anzi. Mi è sempre piaciuto assai quel fazzoletto di terra, da quel giorno speciale di giugno quando – tenevo cinque anni, occhio e croce – proprio in quel fondo capitò un fatto fenomenale da rimanere a bocca aperta per sette giorni di fila.

 

Giovanni Fattori, Bifolco e buoi

Mio padre Carlino aveva appena attaccato a rivoltare il terreno mandando avanti la giumenta e lui dietro con i suoi “ià! ohh! poggia! ihh!” e qualche santo di contorno. S’era ficcato nella capa di piazzare lì un piccolo tendone di uva regina. Lo andava ruzzolando da parecchio e quel giorno finalmente se lo stava a togliere quel desiderio. Ma non era mica una passeggiata, con tutti quei chianconi che uscivano dalla terra come funghi di pietra! Per questo le litanie stavolta erano più lunghe e più incazzate del solito.

Con lui stavano pure due aiuti più lo zio Roccuccio, che io chiamavo Zizì, e poi stavo io, che me la spassavo con le formiche, così come facevo tutte le volte che tatà mi portava in campagna appresso a lui.

Andavo a trovare qualche nido nel corpo di un albero, le acchiappavo, una a una, e per prima cosa mettevo loro un nome di femmina, diciamo Nannina Nenetta Cettina Rosetta. Per me le formiche erano solo femmine: mica si dice “i formichi”!

Le tenevo sul palmo della mano mezza chiusa e gli contavo qualche “cerunavolta” che sapevo a memoria. Poi le mettevo sul treno – la mano era il treno – fino a una specie di pozzo che stava al confine del fondo, mezzo coperto da un chiancone. Ciuf ciuf ciuf… e le menavo abbasso al pozzo. Nella mia testa era come se le facevo bere per togliere loro la sete che tenevo io, e come se facevo fare loro il bagno nel mare che volevo fare io.

Uagliò, attenzione al pozzo, che non te vai abbasso e rimani là dentro tutta la vita, tu e le formiche, a bere acqua, sangue della marangia turca. E attenzione pure a qualche nido di vespe, che ti fanno nuovo nuovo, per la scarpa santa di Giacobbe. E non andare dove stanno le spine ché puoi trovare qualche vipera, per santo nullo vescovo e pure confessore di Lecce. Hai capito?

Mi gridava tatà ogni cinque minuti, un occhio alla giumenta e uno a me, un santo alla giumenta e uno a me.

A un certo punto lo sento buttare all’aria una folla di santi ancora più ostrogoti, perché la punta dell’aratro s’è incastrata contro una grossa chianca di pietra. La giumenta pure lei si agita e si mette a ballare come una femmina pizzicata dalla taranta, datosi che non può bestemmiare.

Allora Zizì stacca subito la giumenta dall’aratro e dalli, a botta di zappone, a rompere la chianca, ma senza mettere in mezzo manco un santo, perché lui è stato sempre una camomilla di cristiano. Comunque, dal rumore si capisce che sotto la chianca è tutto vacante. Pure la giumenta ha appuntato le orecchie.

Io lascio Nannina Nenetta Cettina Rosetta alla loro vita marrone e scappo a vedere, finché la chianca si spacca in tre pezzoni.

– Mo’ piglia di qua, agguanta di là, scià, per le lenticchie sante del paradiso terrestre.

Levato il primo pezzo di chianca, già si vede il vacante di sotto.

– Mena, per l’anima fritta della maiella, mena ché qua la cosa non mi pare buona.

S’incazzava mio padre con gli occhi di fuori, chiamando in causa la madre pocodibuono dell’aratro, o gli stradefunti dell’albicocca, o la coratella di una santo che non mi ricordo più come cacchio si chiamava.

– Mannaccia alla miseria boia, mannaccia a lei e dove sta, quella bagascia infame disgraziata lurida vastasa e pure fetente, ma qua sotto sta qualche cosa; lo vedete pure voi sì o no?

Là sotto, mezzo coperto di terreno finofino come la rena, stava uno scheletro accucciato, lui e tutto il suo ossario bianco. In più, dentro il terreno, attorno attorno all’ossario, quattrocinque vasi di creta chiara disegnati con strisce scure. Non erano fiaschi, non erano graste, non erano pignatelli: mai viste crete di quella maniera!

 

Vincent Van Gogh, Paesaggio
 

– Santa madosca e santissima bolletta della luce, una tomba degli antichi proprio nel fondo mio. Che se lo sanno alla caserma, mi possono pure sfrattare la terra, porca di quella stregaccia di benevento assunta in terra: così è successo l’anno passato a ‘mbà Giovannino del casale.

Gridava mio padre innervosito fino alla cima dei capelli, con le mani che andavano avanti e indietro senza sapere cosa fare, col sudore che gli scolava fino a terra e con la lingua in cerca di qualche santo senza calendario.

E chi se lo può levare dal cervello quello scheletro! Stava nella posizione di uno che dentro il letto, d’inverno, si acchiappa le ginocchia con le mani e se le stringe forte come se si vuole scaldare da solo lui a lui.

– Uè, ma mo’ vuoi vedere che qua attorno ce ne stanno altre di queste gatte nel sacco? Fece zio Roccuccio, tutto imprisciato lui. Al contrario di mio padre.

E teneva ragione, datosi che l’aratro tornò ad incastrarsi più di una volta, dopo che avevano messo da capo la giumenta a rivoltare il terreno.

Quasi sempre il coperchio di pietra era già rotto e non si trovava proprio niente sotto. Ma, nel giro di un’oretta, tra un santo mai sentito e l’altro dal nome storpiato, tra un priscio e l’altro di Zizì, tra un’esclamazione e l’altra dei due lavoranti, per quattro volte ricomparve l’uomo addormentato d’inverno, circondato da vasi e vasetti di creta che gli facevano compagnia, e tu vallo a sapere per quanti giorni e per quante notti gliel’avevano fatta la compagnia!

Ma che cacchio proprio! Ma roba da matti! e questi non lo tenevano un camposanto, che dovevano venire proprio qua a farsi la tomba, in mezzo in mezzo agli alberi?

– Sì, il camposanto di tua sorella monaca e sorda, minchione che non sei altro, prima mica stava il camposanto e perciò i morti li mettevano sotto alle chiese. Si vede che allora non ci stavano ancora le chiese, e perciò...

– Ma però dico io: se non ci stavano le chiese, allora vuol dire che questi morti sono morti assai prima di Gesucristo.

E come no! bravo al capacchione; come se ai tempi di Gesucristo ci stavano già le chiese. Allora era tutto un altro mondo e noi non lo possiamo mica sapere chi abitava da queste parti e come campava e in che razza di cristo credeva!

Scusa, ma mo’ che c’entra Cristo? A quel poveretto sempre in mezzo lo dobbiamo mettere? Ehhh? Ha fatto quello che fatto e mo’ si deve sentire pure le tue stronzate. Certamente qui abitava qualcheduno uguale a noi, che mangiava e beveva come noi, moriva come noi e si coricava sotto la terra come noi.

Sì, è vero, però, prima di morire, si abbracciava le ginocchia e si voltava come quando uno deve prendere il sonno, che si volta da un costa dentro il letto.

Oh, ma sei proprio un trimone! Com’è, secondo te, lui stesso si doveva mettere in quella posizione? Erano i parenti che lo aggiustavano così, pensando che la morte era come un caposonno e che il morto non doveva morire ma dormire. Hai capito, beduino?

Uè zulù, se è così, io sarò pure trimone, ma quelli dovevano essere più trimoni assai di me. E comunque, se noi ci mettiamo dentro il cervello loro, sai che ti dico? ti dico che noi oggi, a questi, in una maniera o nell’altra gli stiamo a rompere… il sonno. O no?

Tra i due lavoranti si aprì una discussione che non ti dico sopra Adamo ed Eva, San Pietro, gli antichi, la Bibbia. Pure Zizì, con tutto che era fatto di camomilla, alzava la voce. Nessuno di loro aveva un’idea esatta e precisa, ma si appicciava solamente per il gusto di non essere d’accordo con l’altro. Zizì però non voleva continuare a rivoltarla la terra e gli diceva a mio padre di spicciarla con quel lavoro, ché non era giusto fastidiare i morti, anche se potevano essere del tempo di Noè.

Mio padre: zitto; lui sentiva e parlava con la faccia; non riusciva a farsi capace e non ci stavano santi adatti per il guaio che gli era capitato proprio a lui e proprio nel fondo suo.

A quel punto pure io volli prendere parte alla discussione e, sul fatto del sonno, dissi che secondo me, se a quel tempo li mettevano a dormire, forse pensavano che un giorno o l’altro i morti si dovevano svegliare da capo dentro l’eternità, come diceva don Domenico al catechismo. Non è che li stavamo a svegliare noi guastandogli l’eternità?

Ma nessuno però mi dava udienza, come se io non ci stavo sulla faccia della terra, tanto che per farmi sentire, visto e considerato che si parlava di cose di chiesa, gli sparai la cosa che avevo imparato al catechismo la domenica prima, pensando di fargli impressione.

– Secondo me, Dio sta in cielo in terra e in ogni luogo, e, se proprio lo volete sapere, secondo me lui è pure perfettissimo, oh.

Boom. Ma neanche questa dichiarazione solenne li convinse a prestarmi mezzo orecchio. Solo quando, pieno di rabbia, gridai come mio padre «Santa madosca martire, mi sentite sì o no?», solo allora mio padre mi disse le parole e mi disse che ero troppo piccolo per dire male parole; così me ne tornai alle mie belle formichelle, educate, giocherelle e, secondo me, bisognose di farsi una bella bevuta d’acqua o un bagno nel pozzo.

A quel punto l’ultima parola la disse mio padre, giustamente, perché era lui il proprietario!

– Insomma, sangue di giuda ladro e santissima neve di luglio che sta in cielo e lì rimane, insomma qua nessuno lo può sapere veramente di che tempo sono questi capperi di morti, pace all’anima loro. So solo che qui il tendone di uva regina non ce lo voglio, non ce lo posso e non ce lo devo mettere, perché, Cristo o non Cristo, non è mica giusto guastargli il sonno a questi cristiani. Stabbe’? ‘Mmocc’a quella buonadonna della cuginastra di Eva piccola e infame!

Si fece la croce sveltosvelto, come per non farsi vedere, baciò il crocifisso che teneva appeso alla catenina e promise di far dire una messa apposta per l’anima di quei morti antichi che senza volerlo aveva fastidiato.

Poi prese due cassette da sopra il traino, ci fece mettere dentro le crete «Pianopiano, ancora si rompono»; gliene dette una per uno ai lavoranti, raccomandandogli «ceci in bocca»; riempì di terra le fosse dei morti e ordinò di mettere sotto la giumenta e tornarcene a casa, perché la giornata si era ormai guastata e vaffa ‘mocc’alle corna lunghe ammuffite e storte del capodiavolo.

Lungo la strada, sopra al traino, ce ne stavamo tutti zittizitti, come se ognuno voleva ragionare per conto suo su quella cosa speciale che aveva visto con gli occhi suoi stessi. Pure la giumenta cloc e cloc, cloc e cloc con la testa abbassata pareva piena di pensieri.

Solo mio padre, di tanto in tanto, mentre tirava le redini e si aggiustava la coppola da una parte all’altra, diceva qualche pensiero a mezza voce, accompagnandolo con qualche santo di passaggio, come quando un panino lo accompagni automaticamente con la birra.

Io, che gli stavo vicino e che volevo capire qualchecosa, gli bevevo le parole e me le ingoiavo, anche perché glielo volevo dire io per primo a mamma il segreto delle tombe antiche, un segreto più emozionante assai delle storie che vedevo nei giornalini del Grande Blak, con tutto ciò che io lì facevo la parte del piccolo Roddy.

Ma uno di questi pensieri detto a mezza voce da tatà – buonanima − si piazzò fisso dentro la testa e da allora non se ne è voluto uscire piuppiù.

– Ma perché – disse all’altezza di contrada Capovento, vicino al canalone, sotto un sole che squagliava le pietre e le cicale – ma perché poi i morti si mettono coricati, nelle tombe? Prima li mettevano di costa e mo’ li mettiamo di faccia al cielo, ma sempre coricati stanno. Per forza che debbono stare sempre a dormire! A me, invece, quasi quasi mi piacerebbe essere messo all’inpiedi dentro la terra, come una barbatella di uva regina, quanto è vero Dio. Sono sicuro che così non piglierò il sonno e che, porca loca, con un sputo d’acqua e un pugno di letame, chissà...

Non finì di dirlo il pensiero ma, con un mezzo sorriso di quelli suoi, mi guardò fissofisso e mi piantò negli occhi quel chissà, a fondo a fondo, proprio come se stava a piantare una barbatella.

 

Filippo De Pisis, Paesaggio

 

Beh. Non te la voglio fare troppo lunga. Quando mio padre se ne è andato, tre mesi fa, il sette di ottobre, a ottantuno anni, teneva stampato in faccia proprio uno di quei sorrisi suoi, e mentre gli lavavo il corpo con lo spirito mi venne a tozzolare al cervello quel suo chissà. Io lo lavavo, lo guardavo e lui era come se mi continuava a parlare di alberi barbatelle giumente sudore vendemmie tombe e santi impossibili.

Durante il corteo, dalla chiesa di Santantonio al camposanto, mentre la banda suonava una di quelle marce funebri che alle lacrime gli danno una mano a salire dalla pancia per uscire dagli occhi, presi Zizì sotto braccio e gli feci un certo ragionamento all’orecchio.

Io parlavo e lui faceva no con la testa; io parlavo e lui faceva no con la testa. Poi, dopo una mezzoretta di ragionamento, zio Roccuccio prese un fazzoletto dalla tasca, si asciugò le lacrime e, mentre i clarinetti pungevano il petto come gli spilli e i tromboni davano cazzotti nella pancia, mi disse sì a mezza voce.

E sì fu.

Verso le tre di notte, ci troviamo tutteddue davanti al lamione della stalla. Mettiamo sotto la giumenta e, pure senza lampara, in dieci minuti, prendendo la scorciatoia del canalone, arriviamo con il traino davanti al camposanto.

Ma tu guarda! Ma qua non ci vuole proprio niente ad aprire il cancello; meno male che i morti non si rubano.

E invece è proprio un morto che stiamo a rubare, io e Zizì, dopo aver insaccato un po’ di chianconi dentro la bara, lasciata scoperchiata nella prima stanza del camposanto per poi sotterrarla il giorno appresso.

Ioohh, essè, ioohh: una volata e siamo già in contrada Diavolicchio. Un’oretta di tempo e il servizio è belleffatto.

Alla luce di una lampadina tascabile appesa al sorbo, a botta di zappone abbiamo scavato, vicino a quella specie di pozzo, una fossa bella profonda e dentro ci abbiamo ficcato mio padre all’inpiedi, drittodritto e sanosano.

Sì, è vero, pesa un poco, ma non fa nessuna resistenza. Lo guardo in faccia e mi pare di vedere uno dei suoi sorrisi speciali circondato da santi speciali. La giumenta sta fermaferma a vedersi il film piena di pensieri e di sonno. Se teneva le mani, sono sicuro che si doveva grattare la capa.

Finito il lavoretto e riempita la fossa, la lampadina illumina solo un ciuffetto di capelli bianchi in mezzo a quattro zolle di terreno. Un secchietto d’acqua del pozzo e un pugno di letame che ci siamo portati appresso, e il servizio è completo, pace all’anima sua e ai morti che sono rimasti ancora qua sotto terra.

Un giorno sì e uno no, fissofisso, sole vento pioggia neve, io faccio un salto in contrada Diavolicchio, sia pure per dieci minuti soltanto. Una spuntatina agli ulivi, una chiacchiera al lazzeruolo, una zappatella ai mandorli, un secchietto d’acqua, un pugno di letame e qualche requiem a mio padre e ai suoi compagni di terra, pace all’anima loro e alla nostra pure se siamo ancora vivi.

Da una decina di giorni mi sta venendo a trovare più di un mediatore con la faccia da caino e da caifàss: ‘ngul’a lui e a tutta la razza sua. Pare che con il nuovo piano regolatore approvato questo mese sopra al Municipio il mio pezzo di terra è diventato un pozzo di soldi.

Senza offesa, forse perché mi trovo in contrada Diavolicchio, quasiquasi mi sento come si doveva sentire Gesucristo nel deserto della quaresima quando quel schiattacuore di belzebù lo andò a sfottere per farlo cadere dentro la tentazione dei soldi: se ti cali, ti faccio uscire i soldi dalle orecchie, gli diceva in faccia il cornutaccio che sicuramente teneva gli occhi storti. Ma lui, Gesù – manco per sonno – gli disse tre volte di levarsi davanti agli occhi e lo fece ritirare carico di meraviglia a casa del diavolo. E, più o meno, così è pure per me, capisci?. Il mediatore vuole aprire la borsa ma io non gli faccio aprire nemmanco la bocca. E francamente non vedo l’ora che deve arrivare il mese di marzo con tutti i suoi santi veri e falsi… Chissà!


 




 
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