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Una tempesta interiore

di Diego Passera
  La Tempesta
Data di pubblicazione su web 24/02/2010  

Poco prima dell’orario previsto per l’inizio dello spettacolo, senza alcun preavviso, il sipario si apre lentamente, silenzioso e sinistro, mostrando una scena scarna: un lettino d’ospedale su cui è rannicchiata una ragazza, un secondo sipario rosso pende nel mezzo del palco, un panorama concavo obbliga l’occhio a uno spazio claustrofobico e ansiogeno. Con le luci di sala ancora accese, uno dopo l’altro, entrano tutti gli attori e si dispongono ai loro posti. Si spengono le luci e una certezza pervade l’uditorio: non si esperirà una semplice messinscena del testo, non si vedrà quella Tempesta a cui siamo abituati.

 

Secondo Andrea de Rosa, «La Tempesta assomiglia a un labirinto» e il senso ultimo non è cercare la via d’uscita, ma «restarci dentro». Il risultato è una lettura dell’opera che porta in superficie i conflitti della coscienza e dell’inconscio dei personaggi “terrestri”. Essi assumono così uno spessore tutto “novecentesco”, che li tramuta ognuno nella introiezione di se stesso. Tutti eccetto Prospero, il super partes, autentico Deus ex machina onnisciente che organizza, pianifica, ordina, risolve e conclude (e questo già in Shakespeare). Il Prospero di Umberto Orsini, in più, si arricchisce di connotati inediti, che lo esautorano dal suo ruolo e lo umanizzano, principalmente attraverso un eccellente lavoro di espunzione e raccordo del testo: si enfatizza così la potenza tutta empirica delle parole sulla negromanzia. Il comando di Prospero deriva dal potere assoluto del logos, che permette una maieutica della coscienza, l’unica magia possibile.

 

Gino de Luca, Federica Sandrini, Umberto Orsini


Ogni volta che si parla di Shakespeare, sfociare in letture psicanalitiche è assennato e rischioso al tempo stesso. Eppure il vero viaggio che compiono gli isolani di de Rosa (la tempesta è solo nella mente dei protagonisti) è verso le profondità sconosciute dell’interiorità umana, per poter sciogliere i nodi più intricati e poter ristabilire l’equilibrio perduto. Solo Prospero, tra tutti, può dirsi pienamente centrato, in termini psichici e psicologici. Egli soltanto, quindi, può essere la guida di questo viaggio interiore, nel labirinto senza via d’uscita della coscienza umana («Alonso. Questo è il più strano labirinto che qualcuno abbia mai percorso» – atto V, scena prima). Alla fine delle quattro ore di convivenza forzata sull’isola, vengono così ristabiliti i giusti rapporti sociali, attraverso il  risanamento delle oscure “patologie dell’anima” dei naufraghi.

 

Umberto Orsini giganteggia sulla scena, nonostante la sua recitazione rappresenti un Prospero immobile nella gestualità: è vestito con un lungo cappotto grigio-verde, la mano sinistra in tasca e, nella destra, un bastone da passeggio, sempre presente, sostituisce la solita bacchetta magica. La magia non serve. L’assenza quasi totale del gesto è bilanciata da un continuo girovagare per il palco, da una estrema rapidità della mimica facciale e da una ancor più sbalorditiva varietà tonale ed espressiva della voce, che tocca tutte le possibilità offerte a un attore. Prospero-Orsini, diviene, più di quanto lo sia già il personaggio shakespeariano, il centro di un complesso sistema di rapporti sociali, affettivi e patologici che lo legano a ciascuno degli altri personaggi, ma più che altro alla figlia, il bene più prezioso. Egli è un padre-padrone. Tutti i dialoghi con Miranda sono alquanto veementi e assumono il tono di una implacabile sfida. L’unico momento in cui appare la verità dei suoi sentimenti è quando la ragazza si addormenta e non lo può sentire.

 

Lo strumento della potenza di Prospero è un Ariel (Rino Cassano) che rimanda immediatamente alla iconografia dell’angelo vendicatore: si erge in alto, vestito di nero, con una spada nella mano destra. I suoi poteri sono continuamente evocati dalle parole del padrone, ma non li vediamo agire sulla scena. Due casi. Quando Prospero ammonisce Ferdinando perché lasci la spada con cui lo sta minacciando, il braccio del giovane non è bloccato da Ariel ma da Alonso: le colpe dei padri che ricadono sui figli? La scena del banchetto (atto III, scena terza) rinuncia a tutti i connotati magici e si trasforma in una ultima cena – banchetto di nozze, con Prospero che spezza il pane e lo dà ai suoi discepoli, recitando la liturgia di una messa infernale.

 

Enzo Salomone, Francesco Silvestri, Francesco Feletti

 

Azzeccata la decifrazione di un Calibano (Rolando Ravello) psicotico e onanista, immobile in una postura contratta con le spalle chiuse al petto, le mani congiunte ai genitali, continuamente alla ricerca del masochismo psico-fisico, il terribile peso da pagare a un padre inesistente. Egli insegue senza sosta il contatto corporeo, sempre nel senso di una sottomissione totale: dapprima prostrandosi ai piedi di Prospero, alla ricerca disperata di paternità, poi, assoggettandosi completamente a Stefano (Salvatore Striano), colui che, finalmente, con la violenza sessuale, ha appagato la sua necessità di appartenere a qualcuno. Quando, prima dell’agnizione, tutti i personaggi si addormentano, Calibano-Ravello si raccoglie in posizione fetale, con la testa appoggiata sul petto di Stefano.

 

In questo “gioco psicanalitico”, a Miranda (Federica Sandrini) e Ferdinando (Gino de Luca) non può che essere negata la leggerezza della coppia di innamorati. La ragazza rimane sul lettino, sottomessa al padre, fino al momento del matrimonio (il banchetto infernale!). Miranda-Sandrini perde l’ingenuità che normalmente caratterizza questo personaggio, sempre in bilico tra sogno e realtà, e diviene una adolescente arrabbiata, che cerca in ogni modo di ribellarsi alle dure imposizioni paterne. La sua recitazione si carica di urla, movimenti violenti, come di un leone in gabbia, appunto, e di gravi rimproveri al padre, per sciogliersi poi in benevolenza psicotica: nemmeno alla fine raggiunge una salute mentale completa. Ferdinando-de Luca viene sì risucchiato in questo vortice di follia, ma fin dall’inizio è presentato tremante e rattrappito in un angolo del palco, con un aspetto animalesco: non a caso è l’unico naufrago senza abiti. La svestizione, come quella di Calibano dopo che è stato sodomizzato, metaforizza la progressione (o la regressione), nell’eterna dicotomia giovinezza-vecchiaia, natura-cultura, salute-malattia, immaturità-maturità.

 

Uno spettacolo complesso quello messo in scena da Andrea de Rosa, un affresco stilizzato col pennino della consapevolezza da un artista sensibile che riesce a leggere tra le righe e interpretare, senza mai cadere nella banalità. Coadiuvano la riuscita dell’operazione la perfetta e funzionale traduzione approntata da Andrea de Rosa, Claudio Longhi e Umberto Orsini, e le musiche e i suoni “metafisici”, vera estensione dell’interiorità malata dei personaggi, rispettivamente di Giorgio Mellone e Hubert Westkemper. La messinscena può affascinare o respingere, come tutte le prese di posizione, ma una cosa è certa: Andrea de Rosa è riuscito a restituire al Teatro il suo ruolo di exemplum per la società che lo produce e lo esperisce e a rivitalizzare il momento di condivisione di una comunità che accorre ad assistere a un rito di purificazione, per la sua propria abluzione.

 

La Tempesta
cast cast & credits
 


 
Umberto Orsini

 

 

 

 

 


 


Rino Cassano (in alto), Umberto Orsini, Federica Sandrini, Rolando Ravello

 

 

 

 

 

 


 

 
La scena finale
 
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