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La crudeltà di Pirandello

di Gilda Deianira Ciao
  Enzo Vetrano e Stefano Randisi
Data di pubblicazione su web 17/02/2010  

Con Pensaci, Giacomino! Enzo Vetrano e Stefano Randisi sono arrivati fino in fondo, attraversando e scrostando tutti i pirandellismi, a toccare la matrice originaria: sotto le maschere nude dei tre nuclei familiari in cerca di ricostituzione, il volto sopraffattore di troppo umani bisogni, violenti se pure d’amore.

Questo nucleo da teatro della crudeltà è esposto in una messinscena di rotondo equilibrio, grazie al gusto e alla sapienza artigiana degli attori-registi palermitani, cresciuti tra il gruppo Daggide e la Cooperativa Nuova Scena, ma soprattutto nel lavoro con Leo. Fondatori della compagnia Diablogues nel 1995, da diversi anni esplorano i classici – ottenendo il Premio ETI “Gli Olimpici del Teatro 2007” per Le smanie della villeggiatura – e si dedicano all’autore di Girgenti, di cui nella corrente stagione hanno allestito anche i Giganti.
 


Ester Cucinotti e Stefano Randisi
 

Pensaci, Giacomino! è un’interrogazione sulla natura della famiglia, un “lavoro audacissimo” secondo lo stesso Pirandello, in cui Toti, privatosi del matrimonio a causa del magro stipendio d’insegnante, vuol vendicarsi prendendo moglie in vecchiaia, per obbligare il governo a pagarle la pensione a lungo dopo la sua morte: sceglie la sedicenne Lillina Cinquemani, figlia dei bidelli del ginnasio, e incinta di un suo ex-alunno, Giacomino Delisi. Il ménage à trois che ne segue diventa motivo di scandalo, scatena le furie di Rosaria Delisi, che con Don Landolina cerca di strappare il fratello alla relazione adulterina, sposandolo a una ragazza di sua fiducia: ma il tentativo fallisce, perché Toti, portandogli il bimbo, inchioda il giovane al legame di sangue della paternità. Nel Giacomino a firma Vetrano-Randisi nessuna forzatura o colpo di mano, piuttosto scavo à rebours, che reincorpora nella definitiva edizione in lingua (Mondadori 1937) certe battute di quella in dialetto, come affondi di lama nelle pieghe primitive dei personaggi. Dell’originale siciliano i due colgono non solo lacerti testuali ma anche la natura scenica di opera concepita da Pirandello espressamente per la rappresentazione e per un attore, Angelo Musco – che nei panni del professor Toti portò la commedia al successo nel 1916-17 – aspetto che Roberto Alonge ha messo in luce in più studi, evidenziandone i risvolti.
 


Un momento dello spettacolo

 

Commedia, appunto: infatti col Pirandello dei Diablogues si ride, e si sciolgono anche gli abbonati della Pergola fiorentina. I co-registi non esitano a premere sui versanti di comicità della battuta, che apre pure sarcastici richiami all’oggi (Toti-Vetrano: «Non se la passa liscia con me, il Governo, glielo giuro!», e la sala nel sorriso abbraccia il desiderio di rivalsa); o a concedere, con la gag classica della ‘seduta’, un cammeo al gioco d’attore, quando, in apertura del secondo atto, mimica icastica e tempi matematici tra la serva Rosa (Francesco Pennacchia) e il direttore Diana (Antonio Lo Presti) ci danno un assaggio del lazzo di lunga tradizione. Nello spazio di una cifra recitativa antinaturalistica, la caratterizzazione può farsi a tratti caricatura, come per il bidello Cinquemani di Giovanni Moschella, la gestualità assumere ritmi da marionetta, nel congedo del direttore-Lo Presti da casa del professore-Vetrano, mentre il volto passa in modi più o meno intensi dall’espressione alla smorfia. Muovendosi nel corpo della parola, Vetrano e Randisi rintracciano la pregnanza fisica della battuta di ciascun personaggio, guardano nella didascalia oltre l’indicazione concreta, come alle tracce di una visione. Da una lettura che percorre i fili incrociati del testo, la regia genera e ricompone immagini sceniche, apre il continuum drammaturgico in dilatazioni oniriche che ne svelano la dimensione più scura, dove il surreale anche grottesco può sfiorare la tragicità. Così il sipario si alza su una scena che è preludio in senso musicale all’azione, di cui annuncia il tema e la cifra espressiva: sulle note di una marcia funebre, dietro al tulle che divide il palco in due spazi contigui, ecco un vecchio in abito scuro da cerimonia, il braccio sospeso nell’atto di infilare il cappello, il viso contratto tra gioia e dolore. Una giovane in bianco sale i gradini della pedana come quelli di una chiesa, cinge piangendo il suo braccio, mentre dalla penombra emergono sagome alle loro spalle, le cui risa risuonano sempre più forti: è il matrimonio di Toti e Lillina, quello che la scrittura pirandelliana lascia dietro il sipario fra primo e secondo atto, reso in chiave di eco o di sogno.

 


La scena iniziale

 

Ed è pure l’accesso ad un mondo di ombre, fantasmi come quelli dei sei personaggi che in altra sede reclamano vita scenica; qui abitano oltre la membrana, discreti passano a sentire lo svolgersi della vicenda, a spiare l’azione e forse predisporne gli sviluppi. Il doppio spazio è poi l’equivalente del doppio registro della regia, della sua dinamica tra atmosfera metafisica e materialità della risata, tra teatralizzazione consapevole e consistenza umana del personaggio. Maurizio Viani alle luci dosa perciò toni caldi e freddi, ora immergendo la scena in sfumature bluastre, ora riportandola a contorni di vivido chiarore; candele circolano nei due ambienti tra le mani di Rosa, poi dietro il tulle compongono l’altare domestico di donna Delisi, mentre un lamento di sacra passione pervade la recita della sua preghiera sanguigna e carnale.

 

Seguendo i duplici livelli registici, ogni attore fa della propria parte una Figura, che in certi casi attinge a una dimensione antropologica, come nella zitella-penitente di Ester Cucinotti e nell’esemplare maschera sociale del Don Landolina di Stefano Randisi, o a stilemi di classica teatralità, come nella tragica Lillina di Eleonora Giua. La serva en travesti di Francesco Pennacchia sta nello spettacolo come summa di questi orizzonti: bianco sotto la veste nera, espressione tipica di un universo etnico, topos letterario, ruolo codificato della tradizione comica, immagine silenziosa della morte.

 

Dal canto suo, Enzo Vetrano si mette addosso l’asimmetria morale del raisonneur, ne dice l’aggressività parlando con mitezza, sta in quelle intezioni appieno e senza mimetismo, ce le mostra amorevolmente nella loro impietosa piccolezza. Fino a rivelare, in Toti, lo spettro rabbioso di un convincimento sul bene, caparbio e sordo ai reali bisogni dell’altro, pago di soddisfare solo se stesso. È questo medesimo gesto ad accomunarlo, paradossalmente, all’atteggiamento di padre, madre e sorella nei confronti dei giovani amanti, cui è sottratta ogni autonomia di desiderio. Non liberazione allora ma condanna è il ricongiungimento di Giacomino al figlio, mentre un boato fa crollare ogni illusione di bontà e con un ultimo scatto il professore fulmina il rappresentante di una fede senza morale.



Pensaci, Giacomino!
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