È una delusione lultimo film di Martin Scorsese, Shutter Island, tratto dal romanzo di Denis Lehane, scrittore americano prodigo di spunti per il cinema (basti ricordare almeno lo splendido Mystic River di Clint Eastwood). Anche in questo caso sulla carta ci sono tutti gli elementi per unopera memorabile: grande soggetto, grandissimo regista, più lillimitato protagonista Leonardo Di Caprio.
Linizio (curiosamente identico per immagini e atmosfera misteriosa a Ghost Writer di Polanski) è magnifico, con lavvicinamento della barca allisola nella nebbia, il virato bruno dei colori, il grigio plumbeo del mare, il malessere del protagonista, la pacata reticenza del compagno, lattracco al porticciolo, laccoglienza militarizzata del personale di guardia. Anche il percorso di avvicinamento alledificio principale, con la fredda descrizione dellumanità demente che sfila dinanzi agli occhi dei due (che sono investigatori, mandati dalla FBI su richiesta del direttore della struttura per indagare sulla fuga incomprensibile di una paziente-detenuta) dà la speranza di essere entrati in un ottimo film di genere.
Gli entusiasmi dichiaratori del regista (immediatamente sedotto dal thriller psicologico che gli ricordava lammiratissimo Gabinetto del dottor Caligari) non trovano però sostanza nello svolgimento successivo. Nellaccumularsi di immagini che non nascondono un preciso divertimento tecnologico, il racconto frana, in un susseguirsi presuntuoso di derive psicologiche, di giochi a specchio, di ambiguità forzose. Gli incubi del poliziotto protagonista sono quanto di più brutto si sia visto negli ultimi anni: al top le scene del fantasma della moglie morta (in un incendio), seguite a breve distanza dalle immagini dei campi di concentramento nei quali il protagonista ricorda gli orrori delle stragi e le proprie personali nefandezze (che sia un film sul senso di colpa?), prima fra tutte il mancato salvataggio di una bimbetta che lo guarda con aria di rimprovero. Tra tempeste neogotiche e ripetitività, drinks in ovattati saloni con divani Chesterfield e medici iper-ambigui (chi meglio di Ben Kinsley e di un prosciugato Max von Sydow dallaccento germanico?) ci scapicolliamo in torri fatiscenti, in fari isolati sullorlo dellabisso scosceso su un mare sinistro e mugghiante.
Il tutto sarebbe certamente perdonabile se ci venisse risparmiato il chiarimento finale: il matto è lui, il suo compagno è in realtà il suo psichiatra, è tutta una messinscena della nuova (!) scienza che tenta con lui un esperimento estremo di recupero della sua anima devastata da uninsostenibile tragedia (effettivamente piuttosto consistente: la moglie gli annega i tre figli e lui, in un impeto di amorosa pietas, la uccide). In un intervallo di lucidità il povero malato accetta di sottoporsi ad un intervento chimico-chirurgico che gli dovrebbe levare la capacità di soffrire. Diventerà quindi un “bambino buono”. Gli autori non ci risparmiano nemmeno la furbata di unultima ambiguità: potrebbe essere vero quello che lui credeva e linganno potrebbe essere stato perpetrato dai medici solo per ridurlo a prono strumento del Potere.
A questo punto pensiamo che il romanzo di Lehane, da noi non letto, sia irrimediabile e che la colpa di Scorsese sia, come dire, ab ovo. O forse è colpa nostra, che pur nella nostra Italietta quanto ad ambiguità della coscienza abbiamo avuto Pirandello, quanto ad esercizi immedesimatori e liberatori il training ignaziano (sì, il secentesco inventore degli esercizi spirituali) e infine, quanto a normalizzazione sociale di un talento fascinoso e trasgressivo, limmortale Pinocchio. Naturalmente non vogliamo estendere il campo alla vicina Austria del dottor Freud. Non certo privo di responsabilità Leonardo Di Caprio, complice perfetto di un film sbagliato e sempre più pericolosamente attratto dal modello gigionesco di Jack Nicholson. Per il nostro bene, più che per il suo, speriamo che si fermi, sullorlo dellabisso.
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