Ogni testo di un grande drammaturgo come Carlo Goldoni non cessa mai di farsi “nostro contemporaneo” se riletto con la dovuta sensibilità artistica. Accade allallestimento de La locandiera, commedia capolavoro che Pietro Carriglio ha realizzato con una cura davvero singolare per conto del Teatro Biondo Stabile di Palermo e del Teatro Stabile di Catania. Il suo progetto di messinscena palesa, infatti, lantefatto di uno studio meticoloso sul significato di una rappresentazione che sospinge la sfida tra universo maschile e comportamento femminile alle estreme conseguenze; la riporta, cioè, allo stadio puro, privo di motivazioni storico-politiche, ma fitto di esiti metaforici. La regia, che controlla attentamente la recitazione, lambientazione scenografica e i costumi, lascia aperte le possibili contraddizioni caratteriali dei personaggi; in tal modo, i protagonisti di una storia fin troppo conosciuta si mascherano e si smascherano di continuo, fanno i conti anzitutto con se stessi, mentre si rivelano figure improbabili e incerte nella ricerca della memoria perduta.
Galatea Ranzi, Luciano Roman,
Luca Lazzareschi, Nello Mascia, Sergio Basile
La scena diviene, allora, una scatola chiusa, simile a un laboratorio in cui si realizza un esperimento di sezione della coscienza collettiva, in cui si possono verificare le relazioni tra uomini simili, eppure diversissimi uno dallaltro. Scenograficamente Carriglio combina le coloriture della pittura visionaria di Giandomenico Tiepolo, una pittura accolta attraverso un processo di assorbimento che la rende simile alle immagini dipinte sulle pareti stinte delle ville settecentesche, e la corposità tonale dei quadri di Giorgio Morandi, declinata sullo stampo di un fondale che si chiude e si apre, ad un tempo, come se palpitasse sul battito delle parole. Con uno sguardo rivolto alla Locandiera di Luchino Visconti, del 1952, Carriglio prosciuga la recita dagli elementi superflui e tende allessenzialità, con laiuto delle luci taglienti di Gigi Saccomandi. Per risolvere una vicenda senza storia bastano, solamente, tre lunghe panche, una posta sulla linea di fondo e le altre ai lati del palcoscenico, un tavolo, una sedia, qualche cesto di frutta e di verdure (quasi un accenno ai quadretti realistici del Goldoni librettista).
La scena
Mirandolina manifesta, senza esitare, agli spettatori il suo proposito di addomesticare la misoginia del Cavaliere di Ripafratta, unico tra i “nobili” avventori della sua locanda a disprezzare lei e, attraverso di lei, le donne. Senza sussulti il Cavaliere, poco dopo aver biasimato la mancanza di raffinatezze nel servizio dellalbergo, giudizio che suona come un attacco frontale al culto della personalità della locandiera, cade ai piedi della donna; costei sinsinua con fredda astuzia nella camera di un solitario per principio, più che per filosofia, e smonta facilmente la fragile corazza di un anonimo viaggiatore aristocratico, simile a tanti prototipi in libertà. Così, mentre Galatea Ranzi può rendere Mirandolina con la lucida coerenza di una femme dautorité, sicura di sé, avvezza a manovrare gli slanci delleros maschile, dura nel linguaggio persino nei pochi minuti di sentimentalità, Luca Lazzareschi interpreta il Cavaliere alla stregua di uno sperso “principe danese”, amletico anche quando gli altri lo incolpano dessere geloso.
Non meno incisivi risultano, entro il disegno complessivo, le altre presenze, a partire dal fluido agitarsi del Marchese di Forlipopoli, detto con sicurezza da Nello Mascia sul registro del vano orgoglio di una nobiltà immiserita, in unetà in cui conta il denaro. Così Sergio Basile, nei panni del parvenu Conte dAlbafiorita, disegna un tracciato suo proprio che promette tanti possibili sviluppi ideali. Artisticamente bravo è Luciano Roman, al quale è affidato il personaggio del cameriere Fabrizio, promesso sposo di Mirandolina, che nella sua esposizione porta a sintesi tanti anni di esperienza goldoniana, acquisita sotto le maglie di valenti registi. Ortensia e Dejanira, figure difficili per il risvolto meta-teatrale assegnato loro dallautore, qui affidate a Aurora Falcone e Eva Drammis, divengono nella versione palermitana parodie di unaristocratica finzione scenica, oramai superata dalla rappresentazione del mondo.
Galatea Ranzi
Pietro Carriglio guarda alla Locandiera, che da sempre è considerata una commedia ben congegnata, come a unoccasione propizia per attraversare i territori del tempo, utilizzando la semplice struttura del teatro. Sono sufficienti pochi cenni musicali, curati da Matteo DAmico, meglio se trattenuti nella scatola di un carillon, per evocare i consigli di una nonna che insegna alla futura locandiera la filastrocca della seduzione, oppure per rammentare le volontà del padre di Mirandolina, e ancora per mettere in soffitta una volta per sempre la “sorpresa” dellamore. Nel terzo atto, dopo aver dimostrato come si può abbattere lultimo ostacolo per raggiungere le vette di una considerazione collettiva senza neppure spostarsi dal chiuso di una pensione di transito, la donna-locandiera sembra rientrare nellalveo della mentalità borghese (una mentalità cosmopolita, eppure concretamente ancorata alle esigenze di bottega). La scelta di allontanare la vittima sacrificale, un cavaliere innamorato e smarrito, e di restaurare lordine mediante un matrimonio di facciata accentua la centralità della funzione femminile ben oltre il trascorrere delle epoche. Alla fine, la messinscena si capovolge in un processo circolare, per cui la vicenda può ricominciare allinfinito, mentre gli interpreti si allineano verso il fondo, dando le spalle alla platea, in una citazione dei quadri di Tiepolo. Non occorre più cercare significati nascosti tra le pieghe della scrittura goldoniana; conviene affidarsi allintelligenza dello spettatore per ricomporre il disegno scenico in un sistema soggettivo, senza pregiudizi, per smussare possibili incertezze e piccoli trasalimenti realizzativi.
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