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Il sogno e la fine

di Fabiana Campanella
  Foto della locandina
Data di pubblicazione su web 05/02/2010  

Tre atti unici di Pirandello scelti nell’immenso corpus di Maschere nude suggellano l’unione tra Gogmagog e Egumteatro, rispettivamente attori e registi di Questa sera si recita la nostra fine. Incrociatisi nei progetti di residenza del Teatro Studio di Scandicci-Firenze, i due gruppi appartengono a quella generazione del teatro italiano non più trentenne, ma ancora libera dai gironi del teatro di prosa tradizionale, e sempre alla ricerca di un linguaggio della scena che si agganci fortemente alle forme drammaturgiche. Così Annalisa Bianco e Virginio Liberti di Egum, che in 15 anni di attività hanno lavorato su Kafka, Koltès, Copi, Fassbinder, Sanguineti e Heiner Muller, fanno della bellezza dei testi pirandelliani la ricchezza strabiliante di questo spettacolo. Allo stesso modo Carlo Salvador e Tommaso Taddei, gli storici Gogmagog dal ’98, insieme alla bravissima Rossana Gay, offrono un’interpretazione così densa da far tornare la voglia del teatro parlato, il gusto del gioco delle parti, il piacere di restare a fiato sospeso nelle pause, per sottolineare un pensiero, per aprire una finestra di senso o, come accade qui, per spalancare una voragine di inquietudine. Il tema della fine accomuna i tre testi, che si insinuano l’uno nell’altro come i protagonisti trapassano dal sogno alla realtà, dal dubbio alla coscienza dell’inganno, dalla vita alla malattia incurabile, alla morte. Come già l’illustre precedente, Giorgio Strehler, che debuttò alla regia nel 1943 unendo in una sera questi tre atti unici, gli Egum scoprono le tracce di un legame tra le tre storie, diverse e lontane anche cronologicamente.

 


Una scena
 

Sogno ma forse no (1929) è il dialogo fra due fidanzati, reso più asciutto e interiore dal monologo della donna, che recita le battute di entrambi, mentre lui si muove nel sogno di lei con una maschera neutra su un corpo snodato e prono, espressione di un amore rassegnato alla gelosia. «La Giovane signora: “[…] apposta, quella sera, passando davanti la vetrina di quel giojelliere - apposta sì, ho voluto esser crudele. Ti sono parsa crudele?” E lui: “No. Donna”. E lei: “Ancora! Non capite che è colpa vostra, di voi uomini, se le donne sono così, per codesto concetto che n'avete? Colpa vostra, se sono crudeli: colpa vostra, se v'ingannano: colpa vostra, se vi tradiscono?”». Crudeltà curiosa della regista, se il sogno si chiude con un colpo di pistola. È lei che spara a lui, e non lui che strozza lei, diversamente da come scriveva l’autore. Il «vezzo di perle» che lei tanto desiderava è arrivato, ma da qualcun altro: ora è nascosto in un cassetto. Lui non lo sa, prendono il tè. Dopo nottate di vincite al tavolo da gioco aveva tentato di comprarlo, ma un uomo è passato in gioielleria prima di lui. Dunque forse sa. «Latte o limone?».

 

Rapidamente la scena si sposta All’uscita di un cimitero, come dal titolo dell’atto unico sottotitolato nel 1916 Mistero profano. Il passaggio fra i due testi è lieve, nella luce dell’imbrunire gradualmente si schiude la storia di un uomo che non si riconosce più allo specchio. Ha un tubero violaceo sotto i baffi. «“La morte, capisce? è passata. M'ha ficcato questo fiore in bocca, e m'ha detto: Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!” E allora fugge, anche dalla moglie: “Mi sorveglia da lontano. E mi verrebbe, creda, d'andarla a prendere a calci. Ma sarebbe inutile. È come una di quelle cagne sperdute, ostinate, che più lei le prende a calci, e più le si attaccano alle calcagna. […] Non mangia, non dorme più. Mi viene appresso, giorno e notte, così, a distanza. […] Non pare più una donna, ma uno strofinaccio. Le si sono impolverati per sempre anche i capelli, qua sulle tempie; e ha appena trentaquattro anni”». L’uomo dal fiore in bocca, del 1923, è un dialogo già tradizionalmente reso come un monologo. L’ambientazione funebre e il tono grave dell’attore accentuano la potenza del messaggio. «“Mi ammazzerei piuttosto.” Pausa. “Ma ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche...”».

 


Rossana Gay in una scena
 

È notte, si accendono i lumi sulla parete di tombe, si vedono bene i nomi, le foto, i fiori, le date di nascita e di morte. Siamo All’uscita dei defunti, che sbucano dalle fosse con le apparenze che ebbero in vita, con la delusione e lo stupore di ritrovarsi ancora nel mondo terreno, di vederlo senza viverlo. «Un’ombra siede sul divano della giovane signora, trasformato in panchina arrugginita, e racconta all’ombra di un altro uomo, il filosofo: “Certe domeniche, quando mia moglie fingeva di andare a messa e se n’andava invece dal suo amante, dentro sentivo ch’era un sospiro di sollievo. Ma non pieno, mai, perché dovete sapere ch'ella non era contenta neanche del suo amante, come non era contenta di nulla. […]. Il filosofo: “La aspettate?” L’uomo grasso: “Sì, presto. La uccideranno. Ne sono sicuro. Il suo amante la ucciderà”». Nel suo ricordo di primavere amorose tornano le colorate piantine di plastica che costeggiavano il prato verde della prima scena: «[…] “dopo il tradimento, mia moglie rovesciò su lui tutto l'odio di ferocissima nemica che prima aveva per me; e per me riprese ad avere quel certo volubile affetto, un po’ scherzoso, un po’ mordente dei primi tempi del nostro fidanzamento, quando mi cacciava un fiore in bocca e poi diceva: ‘Che buffo assassino!’”». Tutti i tasselli si ricompongono come le lapidi sulla parete di fondo, l’assassina del marito in sogno viene uccisa dall’amante; quella ragazza maliziosa e leziosa piomba in scena con la sua allegria feroce, straziata dalla violenza ma ancora vorace di vita: «“Ma come! Sono di nuovo con te? Ah ah ah ah ah!”». Ora i morti, fermatisi all’uscita della vita, possono dissolversi del tutto.

 

Resta la parola del filosofo, il ritorno al racconto: non un tributo nostalgico al teatro di parola, ma attualissimo tentativo di completezza, nel panorama teatrale contemporaneo, prevalentemente performativo e nichilista. Un lavoro così facilmente adattabile a spazi diversi, disseminato di indizi di modernità – nello stile e nel linguaggio teatrale – non è dunque da annoverare tra le più fedeli e classiche messinscene pirandelliane, ma piuttosto tra i più fortunati episodi di una ricerca espressiva, che recupera lo strumento verbale, e regala allo spettatore un sollievo, un soffio di umanità.


Questa sera si recita la nostra fine
cast cast & credits
 



 
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