Il personaggio di Enrico IV è una prova dattore; come succede per molti personaggi shakespeariani, cimentarsi col protagonista della commedia di Pirandello - scritta appositamente nel 1921 per Ruggero Ruggeri, uno degli attori della compagnia del Teatro d'Arte fondato dal drammaturgo a Roma - significa offrire uninterpretazione personale di una delle figure teatrali che incarnano la follia, la simulazione, lessenza stessa della finzione, che sta alla base del gioco scenico. È quello che ha fatto Ugo Pagliai nellEnrico IV andato in scena al Teatro della Pergola di Firenze. Affiancato dalla consorte Paola Gassman e da un seguito di attori - alcuni giovani - Pagliai ha saputo rendere “leggero” e contemporaneamente tragico, quasi surreale nella pazzia che lavvolge, il personaggio pirandelliano.
Una scena dello spettacolo
Il regista Paolo Valerio in questo allestimento restituisce fedelmente il testo pirandelliano (lepilogo doloroso della follia di un uomo che dopo una caduta da cavallo, continua a credersi e poi fingersi il personaggio che interpretava) e porta in primo piano la follia del protagonista, immerso nel suo vaneggiamento, cosciente di continuare a recitare per anni la parte di Enrico IV perché altrimenti male sopporterebbe lo scontro con la realtà, ovvero lunione di Matilda e di Belcredi. Allapertura del sipario un velino trasparente ci permette di intravedere il luogo dellazione sulla quale dallalto cadono leggeri ed evanescenti fiocchi di neve e un uomo solo col saio e incappucciato (Enrico IV) attraversa la scena. Interessante lapertura di una quinta sul lato destro che si apre a vista degli spettatori e dove un uomo spinge a mano un argano che arrotola il velino quasi come se dal tempo presente ci riconducesse nel passato. Allapertura una marmorea e geometrica scenografia, con due ritratti – quelli di Enrico IV e di Matilda di Canossa – posti specularmente in fondo alla scena; nel mezzo il seggio, il trono, anchesso geometrico e scarno che avanza allapparizione del re; quinte laterali che celano finestre che di colpo si aprono permettendo alla luce di entrare, la luce della ragione, della consapevolezza.
Una scena dello spettacolo
Il re, dopo lincontro con i “fantasmi” della sua finzione (gli attori che si muovono alle sue spalle, quasi si trattasse di una seduta psichiatrica), apostrofati per ben tre volte “buffoni”, si allontana come una marionetta (nei gesti e nelle movenze) dirigendosi - sul fondo - verso un finto cavallo sul quale si arrampica e si muove come durante un atto sessuale, quasi a richiamare lo sgomento e il vuoto di una vita materiale non vissuta pienamente o per dirla con le parole di Roberto Alonge ‹‹Enrico è “impazzito” non per aver perduto la donna, ma per non dover affrontare il rischio di conquistarla e di averla››. (Mondadori, 1993). In chiusura irrompe sulla scena dallalto un sipario rosso e dorato che intrappola Enrico IV, nonostante i suoi tentativi di liberarsene, di passarci in mezzo: metafora scenica dellineluttabilità, dellinevitabile destino del personaggio, schiacciato e per sempre vittima della finzione che ha contribuito ad alimentare.
La pazzia di Enrico IV è sapientemente resa da Pagliai, grazie al misurato passaggio tra tono tragico, giocato su una recitazione grave, enfatica, caricata ma mai forzata, e tono “leggero”, appunto, il tono della pazzia, che si arricchisce di risolini striduli, di sospiri, di voci e frasi pronunciate più sommessamente. Il tono della recitazione cambia proprio nel momento in cui Enrico IV si toglie la parrucca in scena (evidentemente eccessiva, come il lungo pastrano sulle spalle ed il trucco del protagonista, quei due infantili pomelli rossi – che enfatizzano il senso della maschera), mostrando a tutti, ai servitori sbigottiti ed al pubblico, che si tratta di follia cosciente, esclamando: ‹‹Preferii restare pazzo e vivere con la più lucida coscienza la mia pazzia [...] questo che è per me la caricatura, evidente e volontaria, di quest'altra mascherata, continua, d'ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontari quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d'essere [...] Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! - Il guajo è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia. [...] La mia vita è questa! Non è la vostra! – La vostra, in cui siete invecchiati, io non lho vissuta!››. (Atto III, scena prima, versi 72-133).
Paola Gassman
Uno stile, un registro che gioca tra questi due poli, che fa di Enrico IV un personaggio talvolta “leggero”, infantile, bambinesco, in una regressione verso linfanzia, simboleggiata dal quel rettangolo di sabbia (da cui il protagonista estrae, non a caso, la corona), luogo dellillusorio gioco del protagonista, così come da tutta la sala del trono (emblematica la scena in cui Matilda, il Dottore e Belcredi, vestiti in abiti novecenteschi, nel centro della scena, guardano dentro la sala che si immagina parata e allestita secondo usi e costumi medievali, che sta al di la della quinta di fondo). Uno spazio di gioco, quindi, che detta anche gli spazi agli attori, costretti ad un movimento continuo lungo il perimetro della vasca di sabbia; un luogo concluso, sicuro, specchio delle fantasie del protagonista, che si vestono di corpi e oggetti reali, proprio come nei giochi dei bambini.
Anche gli altri personaggi vivono le proprie ossessioni: la maschera della virilità (Belcredi), la coppia di giovani indifesi e fragili e lei, Matilda, interpretata da una voce forte e classicamente precisa come quella di Paola Gassman; un personaggio che insegue il proprio sogno di gioventù (la figlia identica alla madre, specchio della perduta gioventù e bellezza); tra gli altri, spicca per verve comica il Dottore, quasi una macchietta, una caricatura con quella pipa bianca in mano, agitata ogni volta per sentenziare sul quadro clinico dellillustre e regale paziente.
Una messinscena tutto sommato classica sia nella scenografia che nella lettura che il regista ha fatto del testo di Pirandello, e che rimanda a Des Esseintes di Joris Karl Huysmans o a Rosario Chiarchiaro, personaggio di un suo lavoro precedente, La patente; una scena occupata interamente da un bravo attore come Pagliai che dà voce ai temi pirandelliani per eccellenza, come lamore, la follia, lossessione e la coscienza di vivere, con più o meno entusiasmo o fastidio, con una maschera, che cela agli altri i fantasmi della mente, quelle “immagini scompigliate che ridono” che turbano le ore e i giochi di Enrico IV.
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