Il Pipistrello per chiudere lanno in bellezza, o almeno in letizia, non è solo una specialità viennese: mentre timidamente anche in Italia – complici i concerti di Capodanno in televisione dal Musikverein – la cultura delloperetta a ritmo di valzer comincia a essere, se non introiettata, almeno un po annusata, nei paesi slavi di area austriaca Die Fledermaus è un classico a tutti gli effetti. Ecco dunque a Maribor, cittadina patrimonio dellumanità per lUnesco e imminente capitale europea della cultura nel 2012, nel cuore della Stiria slovena, un Pipistrello di fine anno (ma le recite si sono protratte per tutto dicembre) che non ha molto da invidiare a quelli dei vicini di casa austriaci – Graz è a un tiro di schioppo – e, complice un impianto scenico di facile trasporto e una compagnia di professionisti buone per tutte le stagioni, potrebbe essere agevolmente importato anche da noi. Che sia cantato e recitato in sloveno, dove Fledermaus si trasforma in Netopir, è un intralcio solo apparente: lo spettacolo scorre con chiarezza cristallina anche a non comprendere nulla della lingua, comè nel caso di chi scrive. E pazienza se sfuggono certe salacità, o tali almeno a giudicare dalle risate del pubblico, dei dialoghi riscritti nelladattamento drammaturgico di Metka Damjan e del regista Vito Taufer.
Limpianto scenografico di Samo Lapajne, a ogni alzarsi di sipario, sembrerebbe promettere (o far temere, a seconda dei punti di vista), un Pipistrello “alla tedesca”. Si tratti della casa alto borghese Eisenstein del primo atto (trasformata in un algido loft postmoderno), di quella aristocratica del principe Orlovski nel secondo (ridotta a due gradinate a destra e sinistra del palcoscenico) o della prigione del terzo (un livido tableau dinferriate e neon), la visualità resta la stessa: messinscena pauperistica, monocromatico grigiore, totale disattenzione per il benché minimo senso estetico. Ma si tratta, probabilmente, di desiderata pratici (la funzionalità ed economicità delle scene) più che di una lettura volta a sottrarre quella luminosità e quella gioia di vivere che di unoperetta sono ingredienti statutari: tanto più che la recitazione impressa da Taufer agli interpreti (ecco finalmente un regista che calibra ogni movimento basandosi sui suggerimenti impliciti del dettato musicale) contribuisce invece a innervare il giusto ritmo scoppiettante. Semmai a restare un po sacrificata, in questa dialettica tra una scenografia volutamente plumbea e una regia che gestisce con finezza larte della pochade, è quella dimensione malinconica che, nel Pipistrello, dovrebbe trapelare dalle bollicine dello champagne che vi scorre a fiumi.
Laffidabile solidità musicale dellesecuzione fa il resto: il direttore Simon Robinson conosce larte di giocare con i “rallentando”, i “rubati” e i “crescendo” senza sconfinare nellaffettazione tecnica e nello sminuzzamento agogico fine a se stesso, mentre lOrchestra del Teatro Nazionale Sloveno (compatta negli archi, forse un po meno inappuntabile nei fiati, ma soprattutto con un suo colore e un suo timbro complessivo ben riconoscibili) unisce spessore operistico a leggerezza operettistica, con quella duttilità che la rende “cantabile” nellaccompagnamento dei molti ariosi e debitamente “danzante” nei ritmi ternari che costellano la partitura. Quanto ai cantanti (Maribor può contare su una compagnia stabile), se non si sono avvistati fuoriclasse si è però potuto contare su un buon livello complessivo, corroborato dalla sensazione di grande omogeneità che sprizzava dal palcoscenico, anche perché tutti mostravano ottime qualità di attori.
La protagonista Andreja Zakonjsek-Krt sfoggia una bellezza signorile e una sensualità piacevolmente matronale, unita a uno strumento – più che da soprano lirico – da soprano leggero irrobustitosi con gli anni. Laltro soprano, Petya Ivanova, tanto brevilinea quanto scatenata, appare più schiettamente soubrettistica, mentre tra i due tenori – lEisenstein di Matjaz Stopinsek e lAlfred di Tim Ribic, forse un po troppo simili quanto a peso e caratura vocale – il primo mostra unemissione più fluida e unintonazione più salda, nonostante spetti al secondo la maggior dose di tenorilità in senso tradizionale (la regia gli affida anche estemporanee citazioni dallElisir damore e dal Trovatore). Emil Baronik (Frank) è un baritono comico di modeste attrattive canore – difficile dire se per la non più verde età o se per limiti naturali ab ovo – ma commediante di gran classe. Né mancano in locandina i giovanissimi, fresche entrate nel vivaio della compagnia del teatro: il mezzosoprano Irena Petkova ha mezzi ancora un po acerbi, ma ciò, in fondo, giova ad accrescere lambiguità fonica di un personaggio en travesti qual è il principe Orlovski; e Jaki Jurgec, sebbene la sua organizzazione vocale appaia più matura, non ha ancora conseguito quella rotondità di suono necessaria, soprattutto nella scena della festa, al canto baritonale di Falke. Un tripudio di applausi è andato poi, nel ruolo solo recitato del carceriere ubriacone, allattore Vlado Novak, popolarissimo in Slovenia: una maschera memorabile, che anche il cinema italiano – oggi che, come diceva Billy Wilder, «mancano le facce» – potrebbe utilizzare con profitto.
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