Si annunciava, per linaugurazione del Regio di Torino, una serata allinsegna del grande repertorio – La traviata, nella fattispecie – proposta però in una cornice che lasciava scarso margine alla tradizione e alla prevedibilità: direttore più sinfonico che operistico, regista “di tendenza” ma ancora pressoché ignoto in Italia. Ne è scaturita invece una Traviata piuttosto neutra sul piano orchestrale e così manierata, nei supposti affondi di svecchiamento drammaturgico, da risultare invece prevedibilissima, mentre – secondo la più collaudata tradizione – momenti emozionanti, e talvolta di gran classe, provenivano invece dai cantanti.
Le messinscena di Laurent Pelly, finora, i melomani italiani le conoscevano solo in dvd. Non ce ne sarà più bisogno, visto che, nei prossimi mesi, si annunciano tre sue regie in altrettanti teatri italiani. Questesordio torinese, però, ha lasciato limpressione di un talento troppo precocemente santificato dalla critica, sebbene il modo con cui è arrivato lo spettacolo (un allestimento nato al festival di Santa Fe, costruito su misura per la fisicità di Natalie Dessay e ora rimontato dallassistente di Pelly con unaltra protagonista, di caratteristiche assai differenti) possa indurre a un giudizio non definitivo. In realtà solo una cosa disturba veramente: gli urli, i gridolini e le risate che si sovrappongono alla musica durante le scene delle due feste (e anche nel carnevale fuori scena che contrappunta lagonia di Violetta); al di là di questo, però, resta il fatto che lelaborazione drammaturgica messa in moto dal regista è di pensiero debole.
Il funerale della protagonista con cui Pelly visualizza il preludio è solo lennesima variazione sul tema del flash-back, già visto in decine di Traviate zeffirelliane, che fa partire la narrazione con la morte di Violetta; e che le tombe del cimitero si trasformino, senza soluzione di continuità, nel mobilio di casa Valéry, per fare poi da arredo anche in tutti i quadri successivi, è più innovativo soltanto in apparenza: deriva, semmai, dallultratrentennale spettacolo di Lavelli (quello sì, allepoca, provocatorio, anche se oggi innescherebbe reazioni più blande) dove la protagonista emergeva dalla propria bara. Il tentativo di raggelare ogni tentazione di sentimentalismo viene realizzato ora imprimendo una cifra banalmente prosaica (Violetta che durante il brindisi beve champagne attaccata alla bottiglia: i bicchieri intanto sono adagiati sulle tombe che fungono da vassoio), ora con trovate surreali in sé efficaci, ma non adeguatamente motivate (nellultima battuta prima di accasciarsi morta la protagonista si ritrova improvvisamente sola: Alfredo e gli altri si sono volatilizzati come fosse stato tutto un sogno). Alla fine, in questo spettacolo che Pelly in unintervista aveva definito allusivo e antididascalico, le cose più riuscite sono proprio certe citazioni pittoriche innegabilmente didascaliche: la teoria di ombrelli che, durante il funerale sotto la pioggia battente, rimanda a Renoir e il Germont in abito nero e cilindro che evoca il ritratto di Verdi fatto da Giovanni Boldini.
Elena Mosuc e Francesco Meli
Gianandrea Noseda, nonostante il suo incarico di direttore stabile al Teatro Regio, resta bacchetta essenzialmente sinfonica: se Montale in Portami il girasole parlava di «bionde trasparenze», Noseda – con il suo senso delle sonorità diafane, ma anche con un certo gusto per gli impasti cinerei – ottiene delle ossimoriche grigie trasparenze diventate quasi una nota distintiva dellorchestra torinese, ma che poco si confanno al melodramma italiano. Le scelte agogiche sembrano mirare a una Traviata ciaikovskiana: respiro franto, trasalimenti repentini, ritmica cangiante. In questo senso la dialettica con una regia frammentata come quella di Pelly funziona bene: dispiace, però, che la sintonia sia tale da indurre il direttore ad avallare tutti gli strilli e le risate di cui si diceva. Quanto alle voci, nella lettura di Noseda vengono più assecondate che sostenute: il che va benissimo con cantanti solidi e personali come Elena Mosuc e Carlos Alvarez, meno con Francesco Meli, le cui ottime potenzialità avrebbero bisogno del supporto di una guida più presente.
La Mosuc non sarà una fuoriclasse per purezza cristallina del registro superiore e totale fluidità di “legato”, ma ha le tre caratteristiche ritenute necessarie da Verdi per il personaggio di Violetta: «talento grande, anima, sentimento di scena» (e che lautore non inserisse, tra i desiderata imprescindibili, lassoluto dominio virtuosistico dovrebbe farci diffidare da quante pretendono di risolvere il ruolo in chiave puramente belcantistica). Ascoltiamo dunque un timbro subito ben riconoscibile, un temperamento genuino, un fraseggio variegato cui la dizione netta e scolpita conferisce plasticità. Insomma, unartista. Quanto a Meli, fino a ieri tenore eminentemente donizettiano, pare che questo debutto come Alfredo preluda a un progressivo spostamento del suo repertorio e, di conseguenza, del baricentro vocale. Trattandosi di una delle più belle voci italiane degli ultimi anni cè da augurarsi che avvenga senza danno: nella recita di cui si dà conto erano percepibili, dietro linnata gradevolezza del suono, un registro centrale artatamente scurito e, per contrappasso, acuti talvolta sbiancati.
Detto che i comprimari erano tutti ottimi attori e, in qualche caso, anche ragguardevoli cantanti (spicca il Gastone limpido e mercuriale di Enrico Iviglia), resta il maggior punto di forza dello spettacolo. La voce densa, fonda e omogenea di Alvarez dà vita a un Germont nobile e ombroso, in cui la relativa ristrettezza della gamma dinamica non è un limite, ma la naturale conseguenza di una raffigurazione rigida e scabra del personaggio. Il ventaglio dinamico circoscritto, daltronde, è affiancato, e in qualche modo neutralizzato, da un senso della “parola scenica” di pregnanza straordinaria: quando in un brano come Di Provenza il mare, il suol, composto da due strofe che ripetono lo stesso identico disegno musicale, lo spettatore sobbalza allattacco della seconda strofa vuol dire che linterprete ha fatto scoccare una scintilla. Sotto questo aspetto Alvarez non è solo un grande Germont: rientra, allinterno di una storia interpretativa della Traviata, in quella manciata di baritoni – Tibbett, Warren, forse Bastianini, in unottica di maggiore amarezza e crudeltà anche Tito Gobbi – che ci fanno capire come sia questo personaggio scomodo lunico possibile deuteragonista di Violetta. E come pure in questopera inequivocabilmente per primadonna mattatrice la “voce di Verdi” sia, ancora una volta, quella del baritono.
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