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Ricordo di Claudio Meldolesi

di Cesare Molinari
  Claudio Meldolesi
Data di pubblicazione su web 05/10/2009  

È recentemente scomparso Claudio Meldolesi, uno dei maggiori storici dello spettacolo europeo. Insegnava all'Università di Bologna. Pubblichiamo qui di seguito il ricordo che a lui ha dedicato Cesare Molinari.

 

Quando Laura – facendomi onore –  mi ha invitato a prendere la parola durante l’addio che parenti, amici, allievi e colleghi hanno porto a Claudio Meldolesi, ho creduto che l’abbia fatto non soltanto perché io sono il decano degli storici del teatro. Io non ho mai collaborato con Claudio, non ho scritto con lui libri a quattro mani come hanno fatto Ferdinando Taviani, Laura Olivi e Renata Molinari, non ho organizzato insieme a lui ricerche o iniziative come Gerardo Guccini, però avevo con lui un rapporto di amicizia un po’ speciale e insolito. Ci vedevamo una o due volte all’anno, soprattutto per partecipare a degli incontri, una sorta di “accademietta” organizzata da Ulf Birbaumer a Vienna o a Parigi, molto informale e amichevole. Prendevamo parte, ovviamente, alle riunioni, che chiamare “sedute plenarie” sarebbe eccessivamente aulico, ma poi stavamo fra noi, con le rispettive spose, per tutto il resto del tempo. Il punto è che, al momento di incontrarci, avveniva qualcosa che non so definire altrimenti che come un “riconoscersi”. Almeno, la mia sensazione era di ritrovare l’amico lasciato ieri, per riprendere una conversazione tanto libera e varia quanto soprattutto consonante, non tanto perché le nostre idee quasi sempre combaciassero, quanto perché si sostenevano e quasi si completavano a vicenda e più ancora per il tono armonioso. Riconoscere, dice Unamuno, vuol dire amare.

 

Non voglio scendere nei dettagli di questi incontri e di questi conversari, che sarebbero utili per illuminare l’umanità e il delizioso carattere di Claudio, ma che mi indurrebbero nella tentazione di parlare più di me che di lui, anche se si tratterebbe pur sempre delle sensazioni, dei pensieri e – perché no? – dei piaceri che lui mi ha lasciato. Io lo ricorderò (il ricordo, come il dolore e il rimpianto sono sempre esclusivamente individuali) soprattutto per questo – che finirà con me, ma mi rendo conto che il patrimonio, l’eredità più concreta e condivisa lasciati da Claudio sono fatti in primo luogo dalle sue opere, nelle quali la sua umanità si vela, ma non perde verità e autenticità.

 

Claudio Meldolesi era uno storico del teatro a tutto campo (ma preferirei dire Theaterwissenschaftler, perché il termine tedesco è più comprensivo e si traduce male con “scienziato del teatro”). Il suo primo libro è del 1967, quando l’autore aveva 25 anni. Si tratta di un lavoro sugli Sticotti, una famiglia di comici attivi a cavallo fra il Sei e il Settecento e fino ad allora noti soltanto perché uno di loro, Giovanni Antonio, aveva tradotto in francese Garrick, ou les acteurs anglais, aprendo con ciò il dibattito sull’arte dell’attore che porterà al Paradoxe sur le comédien di Diderot. Verranno poi, a distanza di pochi anni, gli studi su Gustavo Modena, sul teatro feudale in Sicilia e, molto più tardi, sul teatro del primo Ottocento (in collaborazione con Ferdinando Taviani, 1991). 

 

I suoi interessi però vennero poi via via sempre più concentrandosi sul teatro contemporaneo, ed è al teatro del nostro tempo che egli dedica la maggior parte della sua produzione degli anni della maturità. E tuttavia, se è vero, come diceva Benedetto Croce, che la storia è sempre “storia contemporanea”, sarà facile accorgersi di quanto i libri giovanili, che parlano di epoche più remote, illuminino la storia dei nostri giorni: gli Sticotti furono una famiglia di attori attivi negli anni in cui nasce e si consolida istituzionalmente il secondo Théβtre Italien e portarono così nell’interpretazione della nuova drammaturgia francese di Marivaux (un po’ come aveva fatto Tiberio Fiorilli con Molière) l’antica sapienza dell’arte comica italiana, fondata anche sulla riflessione teorica in una dimensione già quasi laboratoriale. Gustavo Modena fu il primo “grande attore” italiano, colui che, sperimentalmente fondava la recitazione su un intreccio di eccessi e di misura, di stilizzazione e di realismo, un poco come Edmund Kean, ma, al contrario di lui, attenendosi ad un fondamentale rispetto del testo drammatico, che sapeva riattivare e ricreare; ma fu anche regista e pedagogo, fabulatore oltre che patriota e ribelle. E tutte queste espressioni – laboratorio, sperimentazione, riflessione teorica, riattivazione, fabulazione – ritorneranno come Leit-motive nelle opere che Meldolesi ha dedicato al teatro dei nostri giorni, creando quel tessuto tematico e prospettico che invita a riunire quelle opere quasi in un unico discorso, estremamente articolato e complesso.

 

Claudio ha fatto a lungo parte di quel gruppo di studiosi riuniti attorno alla rivista “Teatro e Storia”, che chi guardava da fuori definiva “i bolognesi”, anche se erano quasi tutti romani, come lo stesso Claudio, considerandoli come una vera squadra omogenea. Non ho difficoltà a credere che il titolo del libro postumo di Fabrizio Cruciani, Registi pedagoghi, sia stato ispirato da Meldolesi, che ne scrisse la Premessa, ma sarà più importante rilevare come il concetto di regista pedagogo sia stato formulato da Cruciani nello studio su Jacques Copeau, uscito nel 1971, lo stesso anno del Profilo in cui Meldolesi ritrae la figura di Gustavo Modena come attore-regista-pedagogo, cui più tardi aggiungerà la funzione di Dramaturg.

 

Il gruppo di “Teatro e Storia” aveva fin da quasi subito individuato come proprio punto di riferimento l’opera e il pensiero di Jerzy Grotowski e di Eugenio Barba, la cui ‘ideologia’ tendeva ad esaurire il concetto di teatro nella figura dell’attore, cui Meldolesi aveva dedicato i suoi primi libri. Questa anticipazione non deve far trascurare il fatto che nei lavori successivi si trovino spunti  probabilmente derivati dal pensiero di Grotowski e di Barba. Così, nel libro su Brecht regista ritroviamo idee sullo spreco di energia proprio dell’attività teatrale, sugli spettatori come artefici della significazione, sull’affinamento della percezione.

 

Ma, aldilà di questi sparsi motivi, Claudio non aderì complessivamente a quella ideologia che aveva contribuito a individuare: lo spettacolo resta per lui il risultato imprescindibile dell’attività teatrale, di cui esso costituisce anche la responsabilità politica, così fortemente sentita da Gustavo Modena come da Dario Fo; così la figura del regista non può esaurirsi nella funzione pedagogica che semmai ingloba, ma assume una specificità che lo mette al centro della collaborazione creativa, soprattutto nel teatro del Novecento: nella seconda metà del secolo fiorisce in Italia la “generazione dei registi”, alla quale Meldolesi dedica un intero libro in cui si affollano personalità e percorsi diversi, di giovani e di meno giovani, tutti impegnati nel bisogno (o nell’illusione) di creare un nuovo teatro e una nuova tradizione. D’altra parte nella produzione di spettacoli le diverse  figure, che nella prassi svolgono funzioni specifiche, sono in realtà assimilate sotto un’unica categoria estetica, ma anche psicologica e umana: la poesia. Che non è un termine generico per indicare talento creativo, ma riveste il significato specifico di “poesia lirica”, dove l’espressione diretta, immediata del sentimento si sposa con il magistero del cesellare il verso in modo da “restituire un po’ di disordine”. Da questa straordinaria contraddizione, che potremmo sintetizzare come “cesellare il disordine”, deriva che Brecht è forse più poeta come regista che come autore drammatico – e infatti Meldolesi non riprende mai la definizione che Brecht amava dare di se stesso come Stückenschreiber, scrittore di drammi, preferendo riferire la sua poesia teatrale a quella delle Elegie di Buckow.

 

Ma dove è finito quel concetto di “interpretazione” in cui tanti hanno creduto di poter vedere il senso stesso dell’attività teatrale? Meldolesi non lo rinnega – Modena si voleva “interprete” e interprete fedele dei testi e dei personaggi che rappresentava – né lo riduce a quel concetto di “lettura” promosso dalla Nouvelle critique, che vede nell’interprete colui che illumina un testo a partire dal suo particolare punto di vista e con gli strumenti del proprio metodo. Interprete è invece colui che riattiva un testo, facendone nuova poesia. Non lo rinnega, ma in verità lo usa pochissimo o niente affatto, quasi trasferendolo nella figura del Dramaturg, cui dedica il suo ultimo libro, dove peraltro la funzione di dramaturg (Claudio scrive il termine con la minuscola non per italianizzarlo, ma per togliergli l’esclusiva specificità tedesca, tanto che, in maniera alquanto paradossale, organizza il saggio per aree geografiche) viene via via allargandosi fin quasi a perdere la sua specificità per diventare propria di tutti gli artisti del teatro, dal traduttore-adattatore (cui originariamente in concetto si attaglia) al regista, allo scenografo (Caspar Neher viene definito come un "dramaturg capace di rinarrare i testi per essenze visive"), all’attore stesso: anche Gustavo Modena, proprio in quanto si voleva interprete, si poneva in realtà come dramaturg. Allora succede che nel libro a loro dedicato, troviamo fra i dramaturg, accanto a quelli che tali si definiscono in termini professionali e ovvi (da Lessing e Tieck a Brecht, che come Dramaturg cominciò la sua carriera di drammaturgo – mi si perdoni il gioco – a Ludwig Flaszen e Carrière), quelli che lo sono in termini squisitamente poetici, da Goldoni a Dürrenmatt, da Maurice Sand a Fassbinder e Heiner Müller. Così, poiché bisogna distinguere tra dramaturg burocratici e dramaturg artisti, questi ultimi finiscono con l’identificarsi potenzialmente con tutti gli artisti del teatro, sotto il decisivo concetto di poesia – un concetto che è alla base della fitta dialettica in cui si trovarono impegnati Meldolesi e Taviani e che ebbe un’espressione quasi simbolica nel volume Teatro e spettacolo del primo Ottocento, il cui terzo capitolo, dovuto a Nando Taviani, e che introduce la lunga trattazione di Meldolesi sull’attore italiano, si intitola La poesia dell’attore.

 

Ed è stato proprio il concetto di poesia in quanto condivisa nella figura del dramaturgo ciò che ha reso possibile riunire in uno stesso libro brevi studi su personaggi così diversi se non addirittura incommensurabili come Totò, poeta del frammento, Gadda, poeta del dolore, e perfino Mario Apollonio, poeta dell’intelletto. 

 

E forse non sarebbe sbagliato credere che proprio in Mario Apollonio, Claudio abbia pensato di potersi rispecchiare, non tanto perché entrambi sono diventati storici del teatro percorrendo strade diverse, ma in qualche misura parallele, quanto piuttosto in forza della comune ricerca dell’individualità nella tradizione, intesa quest’ultima nel suo significato letterale di trasmissione, quella trasmissione informale della sapienza del mestiere che è propria degli attori, e soprattutto in forza della comune razionalità della propria passione.

E, se posso aggiungere, perché in entrambi la dolcezza del carattere si sposava con la penetrante originalità dell’intelligenza.




 



 
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