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L'attore alla fine della trilogia ronconiana

di Carmelo Alberti
  Antonello Fassari (Xantia) e Massimo Popolizio (Dioniso)
Data di pubblicazione su web 19/05/2002  
L'allestimento delle Rane risulta, a ben vedere, il più ronconiano dei tre, a dispetto delle polemiche e delle censure che ne hanno accompagnato l'esordio. La descrizione del luogo in cui la terra sconfina negli inferi, nel regno di Plutone, acquista i tratti di un desolante deserto della civiltà e del potere. Le carcasse di un significativo cimitero di automobili, che insieme ai costumi dei personaggi alludono a un'età oscura, contraddistinta dalla morte della democrazia e dalla prevaricazione autoritaria, si fanno ricettacolo e simbolo di un viaggio verso l'ignoto, alla ricerca di una soluzione civile, al termine del quale s'accende una disputa estrema, riguardante la funzione del tragico sul piano didascalico e sul versante filosofico. Ma confluiscono nello schema della commedia tali incroci tematici da chiamare in causa la correlazione fra ideologia e comportamento. Nel gioco dei capovolgimenti e delle deformazioni comiche, insomma, Aristofane lascia intravedere con graffiante efficacia l'inconsistenza dei modelli e la fragilità dei princìpi dinanzi alla complessità dell'esistenza (una complessità che si riscontra nel medesimo impianto del testo).

Dioniso, che qui ha perduto l'aura eccelsa che presentava nelle Baccanti, acquisisce le sembianze di un greve e incerto viandante, mascherato da Eracle, che s'accompagna al servo Xantia, disputando come qualsiasi mortale sulle nefandezze di ogni giorno. Dopo la caduta degli dei nel Prometeo e di fronte alla crudele possessione del divino nella tragedia euripidea non rimane che sprofondare nell'abisso che lo stesso Dioniso aveva aperto sotto i piedi degli uomini. Laggiù, seguendo la scia della morte, è possibile, forse, bilanciare - anche nel senso letterale di misurare con la bilancia - la divergenza che esiste tra gli inutili virtuosismi poetici sia di Eschilo, sia di Euripide, colti nel regno di Plutone in un eterno altercare sulla rispettiva supremazia tragica. Quel picaro che va in cerca di una soluzione a beneficio della città, che è tirato per la manica da due schiere contrapposte di corifei iniziati, uno bianco e l'altro nero, non ha nulla né dell'eroico Eracle a cui s'ispira, né della divinità invasata e possessiva che aveva imposto i propri misteri nelle contrade della Grecia.

La scelta di degradare l'interpretazione fino alla vigliaccheria e alla maldicenza, recupera un'aura di squallida umanità a Dioniso, che a tratti si fa spettatore ammirato del suo stesso culto. Il congegno della messinscena si avvolge in abili movimenti di oggetti, marchingegni e gruppi corali, una cornice convincente per esecrare le deformazione della politica, il crollo della virtù e la fine della sacralità, di fronte alla caparbia esaltazione del reale vissuta come sfida permanente.

Forse sta proprio qui la coerenza trasversale delle tre realizzazioni sceniche. Si avverte il desiderio di porre al vaglio l'azione dello sfidare, esaminandone le valenze entro le coordinate di un tempo soggetto a subire un'improvvisa inversione di rotta. Se il calvario di Prometeo considera come le faccende divine aprano un varco nel circuito cielo-terra-cielo, i riti dionisiaci portano scompiglio nella polis, e precipitano in basso le certezze della civiltà umana, Le rane tentano un aggiustamento impossibile. La consistenza dell'azione tragica è affidata all'ambiguo esercizio del comico, che è costretto a snidare, comunque, le rigidità della politica. È come se, per colmare la voragine, si finisse per stendere sull'abisso un velo di carta: l'apparenza mostra che il vuoto non c'è più, la sostanza dice che è pericoloso comunque passarci sopra.

Ma il gioco della regia si sbizzarrisce nel neutralizzare il grottesco e i significati metaforici, dando spazio a prove di bravura, a pregevoli monologhi d'attore, a cominciare da quello che esegue Annamaria Guarnieri nei panni della corifea delle rane. In fondo alla trilogia di Ronconi s'affaccia prepotente l'autonomia dell'interprete che guadagna a suo modo il favore delle platee.



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Le rane
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