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L’orrore della guerra a vent’anni

di Sara Mamone
  Lebanon
Data di pubblicazione su web 14/09/2009  

Bello senza riserve, tragico, con un tema forte e, di tutta evidenza, necessario. Dura 92 minuti senza un attimo di luce la vicenda dei quattro protagonisti, giovani, anzi giovanissimi, soldati murati in un tank israeliano in una operazione di “pulizia” nel corso della sciagurata prima guerra israelo-libanese nel 1982. Necessario perché, come per certi versi gli omologhi Beaufort e Valzer con Bashir, nasce da una profonda ferita morale dei loro autori, dalla necessità di superare la rimozione della colpa per cercare quindi di vivere un oltre che quella colpa pare rendere impossibile. La colpa è per tutti e tre l’aver partecipato a sciagurate operazioni di uccisione di civili in guerra, la guerra è quella che all’inizio degli anni ‘80 ha visto la “messa in sicurezza” dei confini orientali di Israele dagli attacchi dai campi libanesi e siriani, una guerra più insensata di altre, conclusa con una delle ferite più immedicabili nella coscienza israeliana: i massacri nei campi-profughi palestinesi di Sabra e Chatila.

 

Gli autori dei tre film avevano vent’anni e solo ora riescono a rievocare l’orrore, il terrore, gli errori della loro inesperienza, macchine impreparate a quel tipo di azione, sia militarmente sia, soprattutto, psicologicamente. Hanno atteso un quarto di secolo per poter ricordare, ma anche per trovare la forma espressiva giusta per esprimere questo orrore senza che fosse solo confessione personale. E l’hanno trovata, spremendo dal loro talento forme espressive inedite, rifuggendo da qualunque esteriorizzazione, Bashir addirittura usando solo tecniche animate, Lebanon concentrando il teatro di guerra all’interno di un carro armato, utero sferragliante e mostruoso nel quale si consuma la vicenda del piccolo drappello, chiamato ad un’operazione che dovrebbe cominciare come una passeggiata e che diventa puro terrore nello sconfinamento in terra siriana, ogni comunicazione interrotta; all’interno solo angoscia, inesperienza, la morte fisica di uno dei soldati, l’annientamento psicologico degli altri.

La guerra è tutta lì dentro e lo spettatore non può sfuggire, imprigionato anche lui in soggettiva, assordato dai rumori di questa ferraglia semovente, come fosse in prima linea: fango, sangue, polvere, fumo, acqua stagnante, la vita fuori vista solo attraverso il teleobbiettivo del carrarmato. E anche lo spettatore, quinto prigioniero del tank si sente un po’ colpevole. Cinque minuti di applausi, non liberatori, convinti.

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