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Prometeo tra cielo e terra 

di Carmelo Alberti
  Franco Branciaroli (Prometeo) incatenato alla gigantesca statua del titano
Data di pubblicazione su web 01/06/2002  
Una cifra di maestosità distingue la rappresentazione del Prometeo: la statua di un gigantesco titano inginocchiato, con il capo chino, si presenta come il punto di snodo tra universo e globo terrestre. Qui, ai confini del mondo, in una distesa desertica e inaccessibile, Efesto è costretto a subire il comando di Zeus che gli impone di inchiodare con catene indistruttibili alla rupe più elevata il figlio di Themis, colui che è nato dal connubio tra l'infinito del cielo e la durata della terra. E la testa del gigante, protesa verso l'alto, assume la duplice valenza di vetta-prigione e di immagine organica, globale, di Prometeo eroe prostrato, ma non sottomesso, ostaggio eppure libero nei pensieri e nei moti dell'animo. L'impianto della messinscena di Ronconi esalta la relazione fra il livello delle divinità, che spesso giungono dall'aria, volando con l'ausilio di una gru, e che agiscono comunque da una posizione superiore, e il piano della sofferenza, quello popolato dal coro di Oceanine. Le ninfe figlie di Teti e di Oceano fluttuano entro canali acquei, s'increspano come le pieghe dei loro abiti chiari, ondeggiano sospinte dal vento, guardano fisso verso la cima, laddove Prometeo lancia una sfida immensa contro il potere del re degli dei, respingendo l'accusa di empietà per avere donato la speranza alle creature mortali, per avere aperto la strada alla civiltà.

Il centro dello spettacolo è, dunque, una figura sospesa, la cui essenza trapela da un vocalismo arcaico, che nella recitazione di Franco Branciaroli tende a farsi ora aspro ora evocativo, ora roco e sofferente, ora profetico e minaccioso. I ragionamenti dell'eroe attraversano il corpo della parola, la scompongono, modificandone i toni e trasferendola sul versante della memoria. Mentre i detti di Prometeo inquietano e adirano gli emissari di Zeus, istillano pietà e pianto al suolo, lungo i sentieri liquidi nei quali vibrano le presenze corali, le prime spettatrici del conflitto che avviene in seno all'Olimpo. Trapela la caparbia opposizione del titano, che conosce il corso degli eventi e che s'inabissa nella punizione con la certezza che sarà riscattato; quel dio alla tortura è l'immagine della contraddittorietà del potere: è vittima e vendicatore del sopruso, è più di tutto l'esempio di un'assoluta circolarità del tempo, al punto da proiettare dinanzi a sé le trepidazioni dell'umanità e da assumerle per intero nella sua eterna sofferenza.

I dialoghi che Eschilo costruisce per distinguere l'azione di Prometeo da quella degli altri interlocutori si gonfiano nella propensione alla preveggenza, che si traduce in giudizio e in sentenza. Oceano, interpretato con abilità da Warner Bentivegna, illumina la zona del consiglio alla cautela, a cui Prometeo risponde con la fermezza e la coerenza di chi è destinato a sopportare il peso dello scontro. Il gigante svela alla Corifea, la misurata ed efficace Galatea Ranzi, quali riflessi arreca il dono del sapere e della tecnica per gli uomini; ogni arte procede dalla generosità del dio, la cui voce s'inerpica sopra l'orchestra prolungandosi lungo il tracciato del vaticinio.

Di particolare intensità è l'ingresso di Io, perseguitata dal tafano, l'incomprensibile tormento con cui Era la punisce per essere stata amata da Zeus. L'infelice vergine, resa con bravura da Laura Marinoni, chiede supplichevolmente una rivelazione sulla durata delle proprie sofferenze. Prometeo inizia a evocare per lei la trama degli eventi, che si mescola con la terribile storia di quella donna bramata dalla più possente divinità. La voce dell'eroe insegue i risvolti di un racconto che è prologo alla disperazione che non potrà evitare. Su sollecitazione della Corifea la narrazione del viaggio di Io appare come un mistero che s'incrocia con la propria eternità: da Io e Zeus, infatti, nascerà quell'Eracle che porrà fine all'attuale tirannia. Mentre Io è travolta dal turbine della follia, che oscura la conoscenza del suo futuro e la fa parlare attraverso un terribile sibilo ingolato, sopraggiunge volando Ermes, affidato a Stefano Santospago.

Seppure gli altri dei sembrino stare al di sopra di Prometeo, la sua sapienza li schiaccia e li irrita. Branciaroli grida e aggredisce, mentre cresce l'ira dell'Olimpo e un terremoto lo inabissa verso la seconda fase della condanna, quella in cui un'aquila strazierà la sua carne. Ronconi affida alla forza degli attori la consistenza di una tragedia che sembra un prologo efficace al precipitare della condizione umana; l'ampia significazione delle parole giustifica una coerenza di procedura, che stempera le enfasi e, insieme, esalta le drammaticità. Il regista delinea un'ambiguità plausibile con l'idea di un racconto mitologico che si autodefinisce, senza scomodare inutili correlazione fra l'età di Eschilo e la contemporaneità.

Una cura particolare riserva alle Oceanine, guidandole nel comporre gruppi di ascolto e nell'esprimere la loro adesione al dramma prometeico, alla stregua di spettatrici accolte entro il recinto del rito: in tal modo segna l'itinerario di una misteriosa eternità che opprime le desolate lande terrestri. Persino la sofferenza e la passione delle divinità e dei semidei che s'agitano fra le antiche pietre del teatro appaiono categorie inadeguate a commuovere gli uomini di oggi, poiché la distanza temporale ha interrotto la loro funzione catartica. È un Prometeo che si affida alla sterile traccia della memoria, una riflessione utile forse più a rammentare le appartenenze culturali che a indagare sull'instabilità del soprannaturale, anch'esso assoggettato alle leggi del destino.

Prometeo incatenato
cast cast & credits
 

Branciaroli e Bentivegna nel Prometeo Incatenato
Branciaroli e Bentivegna
nel Prometeo Incatenato


 
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