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A volte ritornano

di Federico Ferrone
  South of the Border
Data di pubblicazione su web 07/09/2009  

Emblema del cinema d’impegno politico americano nei reganiani anni ’80, a Oliver Stone, se fosse questione di valutare tutta una carriera,  si potrebbero perdonare anche alcune decine di passi falsi. Abbastanza discutibili e poco incisivi appaiono comunque molti dei film da lui realizzati nell’ultimo decennio: dai kolossali Alexander e World Trade Center fino ai tre documentari Persona Non Grata, girato in Palestina e i due dedicati a Fidel Castro, Comandante e Looking for Fidel

South of the Border non è, contrariamente a quanto è stato detto, solo un film sul presidente venezuelano Chavez, sebbene quest’ultimo occupi buona parte della prima metà del film, in cui vengono ripercorsi anche la storia della sua ascesa  e il tentativo statunitense di organizzare un golpe per spodestarlo. Il film è piuttosto un reportage, invero superficiale, sul ritorno della sinistra sudamericana, raccontato attraverso alcuni incontri con vari capi di stato che ne sono l’emblema. In ordine di apparizione: Chavez appunto, il boliviano Evo Morales, gli argentini Nestor e Fernanda Kirchner, il brasiliano Lula, l’ecuadoregno Rafael Correa, il paraguayano Fernando Lugo e il cubano Raul Castro (che proprio non riusciamo a considerare un agnellino). Il tutto in appena 76 minuti. Facile capire che il regista americano proceda soprattutto per accumulazione, nel tentativo nobile ma caotico di smontare alcuni luoghi comuni su questi uomini tanto invisi all’amministrazione Bush e ai media di destra. Per un pubblico non americano gli elementi più interessanti sono proprio gli spezzoni estratti dai telegiornali e dai talk show nei quale emerge tutta l’ignoranza, strumentale o meno, dei media e dei politici statunitensi.

Rientra quindi nella logica del progetto la visione partigiana della politica americana e anche la scarsa “pulizia” dell’immagine e del suono (nei colloqui coi leader si sente costantemente la voce dell’interprete di turno) con cui Stone decide di rendere visibile la sua presenza e la sua dinamica d’inchiesta. Semmai fa un po’ tenerezza la goffaggine del regista come intervistatore e l’insospettabile pochezza della scrittura documentaria che in questo caso scivola liscia verso l’agiografia o l’autocompiacimento (un po’ come faceva Emir Kusturica con Maradona) cui cedono talvolta i registi quando si trovano di fronte ai loro idoli.

Dopo averlo influenzato, Stone è diventato oggi una copia infinitamente più modesta di Michael Moore, almeno quando decide di dedicarsi al documentario. E’ curioso che South of the Border sia stato presentato a Venezia a distanza di poche ore da Capitalism: A Love Story di Moore. Malgrado tutti i difetti da sempre attribuiti a quest’ultimo, è impossibile negargli una notevole capacità di strutturare drammaturgicamente i suoi documentari. Cosa che stavolta Stone, malgrado la collaborazione alla sceneggiatura dello scrittore e attivista anglo-pakistano Tariq Ali, si è praticamente dimenticato di fare. Forse solo per una questione di tempo o magari per il desiderio di non appesantire una ricerca nata dal desiderio sincero di conoscere i protagonisti di un particolare momento storico. Va bene che è una distinzione da evitare come la peste, ma se esistono i film minori, di questo si tratta.

South of the Border
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