È stato giustamente uno dei film più attesi di questa Mostra quello di Todd Solondz, che dalle parti del Lido pare essere sempre ben accolto, a partire da quello che è stato ed è, probabilmente, il suo miglior film ancora oggi, ovvero Happiness (presentato a Cannes nel 1998), una delle pellicole forse più importanti degli anni Novanta. Non vorremmo però che, a parte la parentesi un po più sperimentale di Palindromes (qui a Venezia nel 2004), il nostro non si sia chiuso in un cul de sac dal quale parrebbe difficile uscire. Per intenderci, potremmo anche considerare questo nuovo Life During Wartime come una variazione o un seguito del su citato Happiness, ma non vorremmo che Solondz finisse per confezionare ogni volta lo stesso (pur apprezzabile) film.
La pellicola procede in maniera assai lineare, sovrapponendo le storie di vari personaggi, appartenenti tutti alla stessa famiglia: una madre che, dopo aver mollato al suo destino un marito omosessuale e pedofilo, cerca di rifarsi una vita con un corpulento ebreo dal figlio un po autistico; i figli di lei, alla ricerca perenne di risposte che la madre non vuole e non può dare; la sorella di lei, una sorta di hippie in miniatura, che vive una situazione sentimentale difficile e con alle spalle un fidanzato suicida; laltra sorella, che fa la sceneggiatrice a Hollywood e che ha immolato tutto per il lavoro; sul tutto incombe lincubo lontano del terrorismo islamico (ormai ogni film americano dautore che si rispetti adombra fantasmi post-11 settembre). A tenere unito il racconto il tema delloblio, nonché la questione del perdono e dei suoi limiti, sebbene ciò che colpisce del film non sia il pesante e soffocante senso di inadeguatezza che attanaglia ognuno di questi personaggi.
Il pregio della pellicola risiede invece nella meticolosa ricostruzione iperrealistica di un mondo (quello dellAmerica di oggi) che Solondz dipinge alla maniera di un pericoloso giocattolo fuori controllo. I colori saturi della fotografia, le scenografie che rimandano a una sorta di splendente, immenso villaggio-vacanza californiano non privo di luoghi pieni di desolante solitudine, i dialoghi botta e risposta sul senso (vacuo e incomprensibile) della vita, i lenti movimenti di macchina che isolano spesso i protagonisti in uno spazio privo di punti di riferimento sono ciò che di meglio lo stile dellirregolare regista americano riesce a offrire. Modellato in questa maniera, il film riflette sullimpotenza delle immagini e della scansione spazio-temporale del cinema: una sorta di incapacità (dellintero immaginario americano) a riflettere sulla propria identità se non arrovellandosi continuamente su se stesso. Sarà anche una variazione sul tema, ma resta di buon livello. Limportante però, poi, è non esaurire il tema.
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