Trasformatasi, con la direzione artistica di Pier Luigi Pizzi, da kermesse operistica a vero e proprio festival, il tradizionale appuntamento con lo Sferisterio di Macerata ha guadagnato molto e perso qualcosa. Se nè avvantaggiato il profilo complessivo della manifestazione, che a fianco del suo nucleo centrale offre una programmazione a latere altrettanto stimolante, dedicata a un teatro musicale non strettamente operistico o, addirittura, alla prosa; il cartellone non corrisponde più a criteri di sostanziale casualità, ma ruota attorno a un tema (questa volta è stato il turno dell«Inganno») che crea un collante tra titoli diversissimi tra loro; si è creata la consuetudine di commissionare unopera nuova a un autore italiano (questanno ha visto il battesimo di Le Malentendu di Matteo DAmico, ambizioso tentativo di mettere in musica lomonimo testo di Camus). Infine – conseguenza della trasformazione in festival – si è evoluta la logistica della manifestazione. Oggi lo Sferisterio è solo una delle tante sedi: quella destinata alle opere più tradizionali; mentre a fianco del Teatro Lauro Rossi, recuperato già da tempo, si sono aggiunti il Teatro Italia (una sala cinematografica, priva di buca, ideale per opere da camera che richiedono un organico orchestrale ridotto e una gestione atipica dello spazio scenico) e lAuditorium San Paolo (una chiesa sconsacrata adatta a esecuzioni in forma semiscenica o di concerto).
Concetti e Papatanasiu
Dunque, se qualcosa è venuto a mancare, si tratta della “centralità” dello Sferisterio, ora utilizzato solo per due titoli e un po sacrificato rispetto ad anni non più recentissimi, ma nemmeno remoti, in cui nellarena maceratese convergeva una parata di stelle: magari giunta allultimo momento e senza prove, ma tale da mandare in visibilio il pubblico. Certo, si potrà dire che oggi le stelle sono meno e, ad onta dei cachet, non tutte ugualmente splendenti: sta di fatto che lunica presenza stellare era affidata alla classe intatta, ma alla vocalità ormai affaticata, di Mariella Devia, acclamatissima in Traviata; mentre nella Butterfly – laltro titolo di questanno – la primadonna carismatica, fresca o usurata che fosse, mancava in toto. Stando così le cose era dal terzo grande classico in cartellone – Don Giovanni, allestito al Lauro Rossi – che provenivano le cose più interessanti.
Qui Pizzi, corroborato dalla lunga militanza in questopera (fu il titolo con cui debuttò nel 1952 come scenografo e, un quarto di secolo dopo, come regista), mostra una tale confidenza con il testo mozartiano da rimettersi in gioco, firmando uno spettacolo del tutto nuovo che ha scontentato alcuni “pizziani” solitamente entusiasti e, per contro, catturato parte di quel pubblico non sempre in sintonia con questo prolificissimo uomo di teatro. Partendo da un presupposto certo non inedito (Leporello come “doppio” di Don Giovanni), Pizzi lo sviluppa con notevole originalità: la chiave, probabilmente, sta in quel «Il padron con prepotenza / linnocenza mi rubò» con cui Leporello, prossimo al linciaggio poiché scambiato per Don Giovanni, chiede pietà agli astanti, e in quel «Donna Elvira! compatite: / voi capite come andò» che segue subito dopo. Il rapporto erotico tra padrone e servitore (una delle tante possibili componenti, in unopera in cui può essere vero tutto e il contrario di tutto) è stato scandagliato da uninfinità di altre regie, ma in questo spettacolo si avverte una fisicità e, al tempo stesso, una pietas che aprono uno spiraglio nuovo. Perché la violenza qui sembra essersi tradotta, nel servo violato, in unadorazione feticistica verso il padrone (eloquente, sotto questaspetto, come viene realizzato lo scambio di vestiti tra i due) che col tempo è diventata vera amicizia virile; e quellestremo tentativo di abbraccio tra i due, prima che Don Giovanni sprofondi negli abissi, non è solo la più bella trovata dello spettacolo, ma un momento autenticamente straziante.
Devia e Roy (Foto Tabocchini)
Allo stesso tempo, se Donna Elvira (a voler prendere alla lettera i versi di Da Ponte) è lunica ad aver capito tutto, è tuttaltro che gratuita la soluzione – poco apprezzata dal pubblico – di farla giacere con Leporello mentre questi intona laria del catalogo: Elvira sa, dunque è la sola donna con cui è possibile un passaggio del testimone tra servo e padrone. Daltronde in questa regia quasi tutti i personaggi – come se toccasse a ciascuno la sorte erotica di Don Giovanni – sembrano in preda a una bulimia sessuale lontana, come tutte le bulimie, da un vero appagamento: mentre un elegante gioco di specchi, alla parete e sul soffitto, moltiplica le immagini trascinando lo spettatore in unatmosfera voyeuristica che accentua il clima libertino dellopera (Pizzi opta per unambientazione rigorosamente settecentesca). Ildebrando DArcangelo e Andrea Concetti hanno in repertorio tanto Don Giovanni quanto Leporello, e presentano fisicamente più dun punto di contatto: dunque sono gli interpreti ideali per la macchina messa in moto dal regista. DArcangelo simpone per la sonora rotondità della voce e lautorevolezza dei recitativi, mentre Concetti mostra una vocalità meno ricca, e anche unemissione più cruda: ma è la giusta differenza che deve correre tra servo e padrone. Per il resto, sfoggia un “cantar parlando” di gran scuola (ha studiato con un Leporello storico come Sesto Bruscantini) e una duttilità scenica che gli consente di ottemperare alla frenesia motoria imposta al personaggio dalla regia. Carmela Remigio debutta come Donna Elvira, e lo fa con esiti più convincenti di quelli che ottiene quando affronta Donna Anna, qui interpretata da una Myrtò Papatanasiu che mostra suoni forzati in alto – comè nel destino di quasi tutte le interpreti di questo ruolo – ma anche uno spiccato temperamento drammatico. Gli altri si fanno apprezzare, tolto linconsistente (e non intonatissimo) Don Ottavio di Marlin Miller.
Angeletti e Pisapia
Più convenzionali, e tuttavia apprezzabili, le due messinscena allo Sferisterio. Pizzi non ha con Puccini lempatia che ha con Mozart, ma la sua Butterfly si raccomanda per come – in unopera drammaturgicamente minimalista come questa – riesce a riempire senza forzature lo sterminato palcoscenico maceratese. Massimo Gasparon, al di là di unambientazione che opta per il fin de siécle anziché per metà Ottocento, firma una tradizionalissima Traviata, dove disturbano solo un po le risate con cui i coristi si sovrappongono alla musica. Tuttavia appaiono ben resi sia la superiorità di Violetta rispetto al mondo che la circonda (la festa a casa sua ha una scenografia algidamente elegante, quella di Flora ha uno sfarzo pacchiano) sia il senso disolamento della protagonista (che nelle scene di massa rimane sempre sola nella pedana centrale): anzi, resta limpressione che a una cantante come la Devia un allestimento di questo tipo giovi più del confrontarsi con lelucubrazioni di un Graham Vick.
Rapidamente inventariato il cast pucciniano (Raffaella Angeletti, voce ispida e a tratti pigolante, è protagonista volenterosa ma impari al ruolo; Massimiliano Pisapia e Claudio Sgura appaiono più apprezzabili, ma Pinkerton e Sharpless non risollevano le sorti di una Butterfly), resta la Traviata della Devia, che replica con la voce di oggi la sua Violetta di sempre. Accanto a lei il Germont padre di Gabriele Viviani (voce ben timbrata di baritono autentico) si lascia apprezzare più del Germont figlio di Alejandro Roy, con qualche problema demissione da risolvere. Le tre bacchette presentano tutte qualche motivo dinteresse, senza che nessuna riesca a convincere appieno. Di Riccardo Frizza si apprezza linclinazione, in controtendenza con quanto accade oggi, verso un Mozart di sonorità drammatiche, ma non riesce a farsi seguire più di tanto dallorchestra. Di Daniele Callegari sintuisce la volontà destrarre quanto di “sinfonico” è presente in Puccini, staccando però dei tempi che mettono in difficoltà la già arrancante protagonista. Michele Mariotti tiene un piede nella tradizione e laltro nella fedeltà alla partitura: attacca il brindisi in “piano” (come scritto da Verdi) anziché in “forte” (come sempre si fa), ma il triplice «Pietà, gran Dio, di me!» viene realizzato con il progressivo, arbitrario allargamento caro ai direttori dun tempo; opera il consueto taglio allinterno di «Ah, forsè lui», ma recupera la seconda strofa di «Addio del passato»; accorda ad Alfredo la riapertura della cabaletta, ma negandogli il “da capo”. Più che un risultato salomonico, ne sortisce una certa dissociazione espressiva.
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