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Settecento tra sogno e fotogrammi

di Simone Azzoni
  Phoenix
Data di pubblicazione su web 15/04/2001  
Ronconi da tempo ci costringe a giudicare il lavoro teatrale come un traguardo ormai lontano dal copione di partenza. Nelle sue mani il testo che ha ispirato lo spettacolo diventa secondario, cosa morta, e il lavoro teatrale è totalmente altro, ha una sorta di esistenza postuma. Anche in questo Phoenix, rappresentato al Teatro Studio di Milano, il pubblico è costretto a cercare un teatro invisibile. Ronconi, che naturalmente usa le "forme" del teatro (scene, attori, costumi, musiche), ci mostra nello stesso tempo come lo spettacolo voglia uscire da queste costrizioni. E anche Phoenix, ultimo suo lavoro, dà la netta sensazione di un qualcosa che non si lascia completamente rappresentare.

Il testo, scritto dalla poetessa Marina Cvetaeva tra il 1918 e il 1919 ci presenta un rapporto giovane-vecchio opposto rispetto alla recente Lolita dello stesso Ronconi. Là l'amore dell'anziano per la ninfetta, qui appunto il contrario. Là Nabokov nello scontro vecchio - nuovo vedeva l'antitesi Europa-America, qui la suicida Cvetaeva legge con la medesima ostilità critica il nuovo della rivoluzione d'ottobre.Le simmetrie di Phoenix potrebbero continuare. Ecco l'antitesi giovinezza (di Francesca)-vecchiaia (del Casanova); futuro e passato, vitalità e presagio di morte. Ma Ronconi e la splendida traduzione di Serena Vitale, indirizzano il pubblico su altre strade. Se qui si racconta l'allegoria del declino di un Settecento di splendori, lo spettatore segue la musicalità intatta delle battute: musica che costruisce l'opera. Nella scena buia e spoglia, i personaggi di contorno (la lunga schiera degli allievi del Piccolo di Milano) sembrano macabre candele. La loro è una danza argentea, un rondò fatuo e mondano, un'eterea giostra funebre.

Il perno è il vecchio amatore: Massimo De Francovich sublime nella maschera pallida, nell'esangue retaggio di una fiamma che ancora brucia. Attorno a lui uno stuolo di becere dame cortigiane che, garrule e animalesche, simboleggiano il nuovo che avanza. Per questi "bercianti", diretti in scena da Ronconi-Principe, solo movimenti disarticolati, e per i servi crapuloni, simboliche parrucche di plastica. Qualche immagine "teatralmente forte" come il falò delle vecchie lettere ricevute dal latin lover veneziano, ma poi è soprattutto intimismo. Un'intimità che risuona nello spazio nero dell'ellissi del Teatro Studio. Qui risaltano i costumi sontuosi e le anonime tinte scure dei lacchè, a simboleggiare lo scontro tra Settecento e nuovo secolo. Scontro che si amplifica nelle risate forzate, nelle battute di chi rappresenta "il nuovo". È uno sfondo al respiro sommesso di Francesca e Casanova, posti sulla scena a didascalia di se stessi, secondo i canoni recitativi ronconiani. E così interiorizzano le battute e sembrano esprimersi in terza persona.

Anche Galatea Ranzi, nella parte di Francesca, insegue una recitazione lirica, verso il sogno e il mito. Tutto si snoda lungo il sottilissimo respiro delle emozioni, imprevedibili. Più impressioni che tinte (c'è solo il nero e bianco di costumi diversi l'uno dall'altro). E se questo Phoenix ci indica un "altrove" non rappresentato, ecco che lo spettacolo ci fa scaturire come sogni immagini impalpabili che vorremmo afferrare, possedere. Ne sono un esempio la splendida tavolata imbandita che avanza nel buio della scena, languida ed eterea "Ultima cena", oppure quelle dame porcellanate ai palchetti di proscenio, o ancora quel trono al centro dell'ellisse su cui Casanova è deriso dai cortigiani, oppure la sua maschera di gioventù lasciata sulla moquette nera. Tutte immagini che sembrano trasformare lo spettacolo in una sorta di pellicola filmica. Immagini, mille fotogrammi sfumati come i sogni, che trasportano la narrazione verso suggestioni puramente liriche. Ne è ulteriore conferma il poetico finale: Casanova, vittima impotente di un "ignoto" che avanza, esce stancamente di scena lasciando dietro di sé una tenue nostalgia, flebile come soffio, impalpabile come rimpianto.



Phoenix
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