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Monicelli 8 ½

di Roberto Fedi
  Mario Monicelli
Data di pubblicazione su web 14/06/2009  

Tramontato Ferrara, passato ad altri lidi e ad altro, la sua trasmissione Otto e mezzo poteva anche chiudersi, secondo noi. Perché rientra in quelle cose che sono legate al loro ideatore: anche se hanno dei difetti, sono quelli che lui ha incarnato (e nel caso di Ferrara, incarnato sembra il verbo giusto). Senza di lui, rimangono difetti e basta.

Invece ora c’è Lilli Gruber, che lasciò la Rai per andare a fare il deputato Pd a Strasburgo (dove non risulta che abbia lasciato tracce), e ora conduce l’ex programma di Ferrara, di cui è anche curatrice con Paolo Pagliaro, insieme a un sacrificato lì accanto a cui non lascia mai la parola, anzi gliela toglie, e il cui nome è Federico Guiglia – per ricordarcelo siamo dovuti ricorrere al sito web del programma. Ci sono ospiti, si parla di cose, ci si toglie la parola a vicenda: come in tutti i talk show, insomma. Quando di ospiti ce n’è uno solo come il 12 giugno, e quindi costui non può togliersela da sé, allora provvede la rossa e labbruta Lilli a toglierla al povero Federico. L’unico a contrastarla è stato, l’altro giorno, l’insopportabile e alluvionale candidato Pd al Comune di Firenze Matteo Renzi, che lì in studio non la finiva più di autoincensarsi in pretto vernacolo o quasi, impedendo al povero Giovanni Galli, in collegamento precario  (le parole nell’auricolare gli arrivavano parecchi secondi dopo) di dire quasi alcunché. La Lilli lì ha stentato parecchio, dimostrando di essere una conduttrice parecchio limitata (non vogliamo dire di parte). Meno male che non votiamo a Firenze.

Insomma: un programma da evitare, secondo noi. La Lilli si vede che è lì in transito (sembra sempre che dica, specialmente a Federico: non mi meritate – volete scommettere che prima o poi torno alla Rai?). Fa la protagonista, a scapito degli ospiti. Fa domande preparate e non ascolta le risposte (tipico di tutti i giornalisti televisivi fuorché Ferrara, a suo tempo). Gli argomenti sono gli stessi degli altri talk show, ma affrontati peggio. E quindi perché il 12 giugno l’abbiamo visto tutto, e ci è dispiaciuto che finisse?

Perché l’ospite era un Grande, anzi un Grandissimo: Mario Monicelli, regista di capolavori assoluti (La grande guerra, secondo noi, su tutti), anni 94. Il quale, come accade ai Grandi, è stato assoluto protagonista senza strafare, parlando sobriamente, con qualche filo di ironia, e giganteggiando anche di fronte alle domande insulse (quasi tutte) della Lilli e del cagnolino – pardon, questo era quasi il titolo di un film di Walt Disney (Lilli e il vagabondo):  cioè, della Lilli e di Federico.

Monicelli ha saputo dare al programma il tono dell’uomo anziano ma non domo, intelligente, acuto, senza vezzi, senza compiacimenti. Ha parlato poco di sé e molto di cinema; ha parlato del mondo e del suo mondo, della sua vita, delle sue giornate. Come un uomo qualunque, e non uno che ha fatto la storia del cinema europeo e non solo. La Lilli gli faceva qualche domanda e come al solito non ascoltava la risposta (l’altro al suo fianco ha provato timidamente a inserirsi: fatica sprecata); lui parlava con autorevolezza e con sobrietà, con un filo di ironia come nei suoi film. ‘È stato innamorato?’, gli hanno chiesto – domanda sublime, come si vede. Breve risposta, senza compiacimenti. ‘E ora lo è?’, hanno insistito, civettuoli. ‘Beh, ho 94 anni…’, ha risposto con un leggero sorriso stupendo quel Grande al cospetto di Lillipuziani.

A un certo punto fanno vedere un brano da Le rose del deserto (2006). La Lilli dice due banalità leggendo. ‘È tratto da un romanzo di Tobino, bellissimo’, precisa Monicelli (si tratta de Il deserto della Libia, come si dovrebbe sapere se si intervista Monicelli). La Lilli rimane senza parole, perché si vede che sulla sua scheda non c’era scritto. ‘Assolutamente!’, sbotta, e poi passa subito ad altro.

 Assolutamente? E che cavolo vuol dire? Un giornalista televisivo di quelli veri, per esempio David Letterman, avrebbe approfittato subito: per esempio per chiedergli cos’è, per Monicelli, il rapporto fra il romanzo e il grande cinema, come ha ‘ridotto’ il romanzo per lo schermo, come l’ha girato, se aveva conosciuto Tobino. Oppure che cosa c’era di diverso nel suo film da quello che Risi aveva tratto a sua volta dal libro (Scemo di guerra, 1985). Figuriamoci. Ci sarebbe stato da parlarne fino a mezzanotte. E invece: ‘assolutamente!’. E poi dicono che siamo cattivi.

Monicelli ha detto cose eccezionali, con un’ironia di cui quei due neanche si sono accorti. Per esempio, parlando degli attori ‘senz’anima’ (è una sua definizione caustica), ha ricordato che nel passato lontano, quando il mondo era più civile (parole sue), venivano sepolti fuori dei cimiteri, nella terra sconsacrata. Poi, ha aggiunto, è venuta la Rivoluzione Francese e ha sovvertito tutto e non ci si è capito più nulla. La Lilli, insensibile all’ironia, ha lasciato correre e anzi ha dato l’impressione di voler esaltare la Rivoluzione come di prammatica, senza cogliere la vena di sottile cattiveria che c’era sotto, e quindi passando oltre alla svelta.

Ma è stata una mezz’ora grandiosa lo stesso. Alla domanda di quali attrici gli fossero piaciute in passato (domanda grandiosa, come si vede: da fare a Massimo Boldi mica a Monicelli), il Maestro ne ha dette un paio, quasi infastidito. Poi ha aggiunto che era molto bella anche quella di cui non ricordava il nome (ha 94 anni, in fondo: ma abbiamo avuto il sospetto che in modo sublime fingesse), e che si era scoperta il seno in un film anteguerra… Silenzio di Lilli e il Vagabondo, imbarazzati, e corsi alla svelta subito ad altro. Era Clara Calamai, naturalmente: e vi garantiamo sul nostro onore che l’abbiamo urlato a quelle due belle statuine, e non abbiamo aspettato Wikipedia per saperlo.

Che giornalisti, ragazzi. Otto e mezzo a Monicelli, e – per essere buoni – quattro e mezzo ai due ‘conduttori’, Gelmini permettendo.   

 




 
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