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Inchiesta sulla regia d'opera

a cura di Leonardo Mello e Ilaria Pellanda
  copertina
Data di pubblicazione su web 21/05/2009  

Pubblichiamo qui di seguito qualche stralcio dell’inchiesta, curata da Leonardo Mello e Ilaria Pellanda, che l’ultimo numero della rivista «Veneziamusica e dintorni» ha dedicato alla regia d’opera.

 

Cantiere Regia

 

La regia nel teatro musicale oggi è il tema di questa articolata e ampia ricognizione, che coinvolge una nutrita schiera di «addetti ai lavori», dagli stessi registi ai compositori, dai critici agli studiosi (che ringraziamo davvero per aver aderito alla nostra iniziativa, che ha visto in Mario Messinis una fonte irrinunciabile e preziosa di consigli e suggerimenti). A tutti loro abbiamo posto un breve, conciso e generico quesito, riportato poco sotto, lasciando ciascuno libero di esprimere la propria opinione, senza imporre limiti di grandezza né per eccesso né per difetto. Ne è nata un’inchiesta corale di grande spessore, che affronta la questione dai più svariati punti di vista, fornendo chiavi interpretative, analisi storiche e anche qualche spunto polemico. Senza alcuna pretesa di esaustività, offriamo a tutti le diverse risposte che abbiamo raccolto, lasciando a ognuno il compito, speriamo gradito, di leggerne in controluce i dettagli secondo il proprio gusto e le proprie convinzioni.

 

 

Il nostro quesito

Come tutte le forme espressive, anche la regia del teatro musicale segue orientamenti e ridefinizioni in linea con il periodo storico in cui è inserita. Quali sono secondo lei gli elementi essenziali e irrinunciabili del lavoro registico al giorno d’oggi?

 

Hanno gentilmente risposto Daniele Abbado, Claudio Ambrosini, Lorenzo Arruga, Giorgio Barberio Corsetti, Giorgio Battistelli, Marco Bellussi, Leonetta Bentivoglio, Lorenzo Bianconi, Carla Bino, Mario Bortolotto, Robert Carsen, Sandro Cappelletto, Mariano Dammacco, Emma Dante, Hugo De Ana, Gianfranco De Bosio, Pippo Delbono, Guido De Monticelli, Paolo Fabbri, Ivan Fedele, Siro Ferrone, Cesare Fertonani, Paolo Gallarati, Marco Gandini, Massimo Gasparon, Adriano Guarnieri, Gerardo Guccini, Denis Krief, Cesare Lievi, Davide Livermore, Giovanni Mancuso, Giacomo Manzoni, Gian Paolo Minardi, Luca Mosca, Giorgio Pestelli, Pier’Alli, Paolo Pinamonti, Pier Luigi Pizzi, Emilio Sala, Toni Servillo, Alessandro Solbiati, Luigi Squarzina, Federico Tiezzi, Fabio Vacchi, Dino Villatico, Michelangelo Zurletti.

 

 

Daniele Abbado

 

 

Cercare di rispondere a questa domanda implica in partenza altri interrogativi.

Come oggettivare i dati di una esperienza che in gran parte è inevitabilmente soggettiva? Come sintetizzare in poche argomentazioni un tema così vasto?

In realtà la domanda presuppone il riferimento a una consapevolezza storico-critica che nell’evolversi della regia teatrale degli ultimi decenni sembra non essere più eludibile.

Si tratta di una consapevolezza che è all’opera nella pratica quotidiana; quante volte capita di dirci, su un palcoscenico, frasi come: «Questo oggi non si può più fare»?

È a partire da questi presupposti che cercherò di dare alcune risposte.

Senza scomodare Diderot, Brecht e tutta l’evoluzione della regia nel Novecento, mi sembra inequivocabile che il Teatro da oltre due secoli si trova a fare i conti con il tema della finzione scenica, non più accettabile come dato in sé scontato.

Non esiste una posizione neutrale del regista o dell’interprete: come minimo ci si trova a dover decidere, di volta in volta, quale livello di finzione siamo disposti a stabilire, o a  tollerare.  Oppure, nei casi migliori, l’interpretazione teatrale ingloba già la finzione nella drammaturgia che mette in atto.

L’interpretazione sembra essere il corollario implicito di qualsiasi tentativo registico.

Credo che il tema dell’interpretazione sia, a qualsiasi latitudine, il più grande generatore di equivoci. Da qui deriva la figura del regista-demiurgo, una figura spesso ingombrante e abbondantemente  superata dai fatti.

Se siamo in grado di ribaltare questa credenza e questa mentalità, si può affermare che il testo contiene già in sé la sua, o meglio, le sue interpretazioni. E che qualsiasi testo ci presenta lo sforzo dell’autore di raggiungere una coerenza attraverso, o a partire, da elementi non necessariamente coerenti.

Se lavora con questa consapevolezza e con questi strumenti, il regista può abbandonare la fastidiosa tendenza di considerare il suo lavoro come modalità di affermazione della propria identità soggettiva.

Il testo non solo viene prima, ma è la vera priorità.

Il lavoro del regista deve consistere principalmente nel saper far parlare il testo.

Quando è in grado di portare in luce aspetti nuovi di un testo, di metterlo in circolo nel processo di comunicazione che si svolge con il pubblico, di portarlo vicino o dentro o davanti alla sensibilità del pubblico di oggi: allora il lavoro del regista trova il suo compimento.

Stiamo parlando di teatro musicale. Quindi è bene ricordare che per «testo» va intesa la totalità del testo, a partire dalla scrittura musicale – tanti se ne dimenticano.

A questi dati, che possiamo ritenere quasi scontati, vorrei aggiungere una considerazione più precisa, che credo ne consegua in modo diretto: elemento essenziale del lavoro registico è la chiarezza narrativa.

Certo, di fatto è sempre stato così: qualsiasi regia, in qualsiasi tempo, nasce come racconto scenico, e la chiarezza è un suo tratto indispensabile.

In realtà, ogni epoca propone e afferma diversi stati e modi della sensibilità – etica, estetica, politica – e il lavoro del regista si colloca esattamente su questo terreno. L’importanza stessa della narrazione è stata messa a dura prova, quando non decisamente negata per lungo tempo, e il suo riaffermarsi come aspetto costitutivo del teatro di oggi, a partire dalla relazione che lega gli autori al proprio pubblico, mi sembra una conquista decisiva della nostra modernità. Compito del regista è immaginare, nel realizzarlo, un racconto scenico che include nel suo farsi i propri spettatori. 

Penso sia chiara questa formulazione: la regia istituisce il proprio pubblico, nel caso migliore istituisce un pubblico che non c’è ancora, o che ancora non è consapevole di immaginare quelle cose.

Mettere in primo piano il racconto: racconto del testo, del personaggio, dello spazio; tutto deve poter concorrere ad un unico gesto narrativo.

Questo modo di pensare e di procedere porta sulla strada della massima semplicità possibile. Credo che questa semplicità, unita alla forza di una narrazione scenica chiara e riconoscibile, vada incontro e valorizzi la capacità immaginativa dello spettatore, all’opposto di un approccio registico concettuale o illustrativo, ridondante o inutilmente spettacolare.

Non è più possibile affrontare un testo del teatro musicale come un oggetto del passato: questa è una posizione fintamente acritica, che mira a conservare una idea di «tradizione» al massimo consolatoria. Questa idea si accompagna normalmente al bisogno di esprimere, sul palcoscenico, sensazioni di sfarzo, ricchezza di immagini e di materiali, rivelando spesso impotenza narrativa e interpretativa, che è lo stesso.

Il teatro musicale di oggi è in grado di  valorizzare il nuovo, dimostra di non provare paura verso i nuovi linguaggi – siano essi della musica, della scena, o di altri ambiti già prossimi o assimilabili. Nella pratica scenica odierna mi sembra sanata la dicotomia tra innovazione e tradizione; anzi, la comprensione e la valorizzazione della nostra tradizione musicale e scenica contribuiscono a  rendere più preciso e aperto il nostro sguardo sul domani.

In conclusione, spero che la breve ricognizione che ho tentato di fare sia chiara e comprensibile. E convincente. Ne guadagneremmo un atteggiamento più orizzontale e aperto che ci può portare a considerare i capolavori del passato come materia viva e urgente per la nostra sensibilità di uomini di oggi. E a considerare di pari livello la bellezza dei testi di Monteverdi come di Stravinskij, di Mozart come di Berg, di Giuseppe Verdi come di Stockhausen; dei lavori che vengono scritti nei nostri giorni e di altri che verranno scritti nel futuro.

 

 

Claudio Ambrosini

 

La regia alla moda

 

Il Fantasioso che volesse dar sfogo impunemente, ma non senza profitto, alle proprie turbe creative e nel contempo imporsi agli occhi del mondo potrebbe scegliere – tra le professioni che oggi non richiedono una preparazione specifica – la regia di opera lirica.

Nessuno gli chiederà infatti se sia in grado di leggere la musica o di seguire una partitura, né cosa egli sappia davvero di tecniche di emissione e di altre problematiche connesse con il canto e, tantomeno, di correnti compositive o di prassi esecutive.

Basterà che si attenga ad alcune semplici regole – come quella di non ascoltare nessuno –, riassumibili in un unico concetto: meno ne sai, meglio è.

La prima categoria cui non bisogna dar retta sono i cantanti. È noto come siano pieni di pretese assurde come il voler esser lasciati cantare sul proscenio, così da far arrivare la voce nel centro del teatro, veder bene il direttore e sentire altrettanto bene l’orchestra. Tutte fisime. Un cantante ha un’aria solistica, ricca di sfumature e mezzetinte, che magari ha studiato per mesi? Lo si metta in fondo alla scena, di spalle al pubblico a sgolarsi contro la parete di fondo. Una cantante ha un assolo veloce, che presupporrebbe di potersi muovere con scioltezza pari a quella della sua parte vocale? La si faccia camminare con le stampelle e a gambe ingessate, e così via. Bisogna sempre spiazzarli! Solo così si può esser certi di generare in loro una vera tensione interpretativa.

E per quanto riguarda poi la prossemica, l’euritmia, i bilanciamenti, i movimenti sulla scena? Farli derivare direttamente dagli esiti delle prove, che devono naturalmente essere di durata adeguata (una vera regia non può certo essere frutto di tempi ristretti).

E come strutturare quotidianamente la prova? Nella prima parte: tutti stesi per terra, assopiti, a fare yoga. Nella seconda parte, lasciare i cantanti liberi di aggirarsi, sul palcoscenico, senza una meta precisa ma «interrogandolo». Questo è il segreto: interroger l’espace! È lo Spazio infatti, non certo il regista, che deve dir loro cosa fare e da che parte e quando e come entrare, e altrettanto poi uscire.

Invece quello che il regista deve assolutamente cercare è il «konzept», l’idea-chiave alla luce della quale stravolgere l’opera. Extra-volgere! Tenendo presente che più si contraddice l’intenzione del librettista e del compositore, più si noterà l’intervento del regista.

Quanto ai compositori, di solito non capiscono niente delle musiche che scrivono. Quindi, se per caso, aprendo la partitura, l’occhio inavvertitamente vi cada sull’indicazione «timidamente», si dia subito istruzioni al cantante affinché si atteggi a un tono spavaldo, e così via. Bisogna saper intepretare.

Il regista alla moda tenderà poi a preferire le opere dei compositori defunti, che non possono più protestare quando si sposta qualche scena da un atto all’altro o si fa qualche bel taglietto…

Tantomeno dovrà preoccuparsi di mantenere la parola data ai vivi, anzi, accetterà tutte le proposte che càpitano, pronto a lasciare la barca per un’offerta più allettante. E, progettando, mai dimenticherà l’equazione psicologica: costi alti = lavoro importante. Quindi spenda e spanda, e la stima crescerà. E magari disegni anche le scene e i costumi. Tanto chiamare scenografi e costumisti aggiunge solo confusione. E se proprio si vuol risparmiare, lo si può sempre fare sulle voci, sugli strumenti, sull’amplificazione, sulla preparazione musicale.

Inoltre, a proposito di budget, baderà a che il suo compenso sia adeguato e, soprattutto, superi di gran lunga quello del librettista e ancor più quello del compositore che, in fin dei conti, non lavora che per 2 o 3 anni alla stesura della sua opera, mentre al regista si chiede di star lì a far prove per ben 20, e talvolta addirittura 30 giorni. [...]

 

 

 

Lorenzo Bianconi

 

 

 

In due sere consecutive, due diversi Barbieri di Siviglia. Regista e scenografo spagnoli, per la prima volta in Italia: Siviglia da cartolina, balcone e gelosia, lampioni all’angolo, il moño sulla nuca. Tutto scorre senza intoppi: l’abile sarto taglia l’abito in maniera che non lo si noti quasi. Nel quintetto della stupefazione, un lepido gioco di scena increspa l’interminabile «Buona sera»: la borsa che il Conte ha somministrato di soppiatto a Basilio («Via, prendete medicina») sguscia di mano in mano, il barbiere lestofante la ghermisce al maestro di musica, la lancia al Conte, che la dondola sotto il naso di Bartolo per subito rilanciarla a Figaro, mentre Basilio cerca invano d’acchiapparla e infine se ne va con le pive nel sacco. Alla «gran pausa» – tableau vivant dei quattro attori rimasti – Figaro esibisce gongolante la borsa-trofeo: a passo felpato rientra Basilio che zàcchete, gliela soffia e via. Con un niente, la laboriosa estromissione dell’intruso don Basilio si è arricchita di un contrappunto scenico che la giustifica e la illeggiadrisce: una piccola delizia di vecchia e buona scuola. L’indomani, altro teatro, regista e scenografo di grido. Al «siete giallo come un morto» fioccano cataletti, barelle, carri funebri, croci a lutto, candelabri da morto; Basilio viene scarrozzato per la scena da una squadra di barellieri e beccamorti, un prete spuntato da chissà dove gl’impartisce l’estrema unzione, mentre Rosina e Bartolo vanno sù e giù per un montacarichi a vista. Non si tratta più di togliersi dai piedi l’importuno, bensì di farlo fuori, di fargli la festa. La levità di Beaumarchais Sterbini Rossini scade in caricatura sguaiata, sberleffo grottesco, dissacrazione à la page. Plumbeo.

Le regie d’opera si distinguono in belle e brutte più che in «tradizionali» e «creative». Le une come le altre possono vivificare il meccanismo drammatico o appesantirlo fino a farlo stramazzare. Ma gli allestimenti «innovativi» – quelli che muovono dall’idea che «tanto l’opera è un museo» e perciò occorre «svecchiarla» – sono più degli altri esposti a un rischio tipico delle età decadenti: coltivare la cuisine pour les cuisiniers, tessere un gioco per iniziati, mandare messaggi cifrati. Di quanti spettacoli «innovativi» e «trasgressivi» si vede da lontano che strizzano l’occhio alla regìa dell’amico o del rivale, sollecitano lo squittio compiaciuto del critico tale o del letterato talaltro, stuzzicano il palato blasé del sovrintendente X o del direttore Y? È fatale che l’ambiente teatrale incubi il narcisismo: poco male, se si tengon saldi i termini della comunicazione teatrale – a un capo l’opera allestita, all’altro lo spettatore – e se si concepisce la regia al servizio di questi due termini, non in funzione delle public relations del regista. La regia è un mezzo, non un fine.

Il teatro ha anche una missione pedagogica: oggi più che mai, col deprecato invecchiamento del pubblico. Ormai non possiam più dire che «tanto tutti conoscono» Il barbiere di Siviglia o La bohème o Il trovatore: per molti, il «museo» è un luogo dove non hanno mai messo piede, dove attendono chi li conduca per mano. In ogni platea c’è una percentuale non trascurabile di spettatori che quell’opera la vedono e la sentono per la prima volta, e desiderano innanzitutto capire Rossini e Sterbini, Puccini e Illica e Giacosa, Verdi e Cammarano; perciò sono riconoscenti al regista che gli faciliti il (gradito) compito di guardare e ascoltare e capire, che gli eviti la (sgradita) sensazione di essere tagliati fuori da un divertimento per soli intenditori. Il regista che per amor di sé e dei suoi pari non si curi di questa quota di spettatori – una quota che importa crescere, non scoraggiare –, che per disgusto del già visto e del già fatto vuole stravolgere e strafare, si assume una ben grave responsabilità. (Del resto la regola della «prima volta» vale per tutti noi, e vale sempre. Quando ci sediamo a teatro o mettiamo sù un disco o riprendiamo un romanzo, stipuliamo tacitamente con noi stessi una convenzione estetica primaria: facciamo finta che quel melodramma, quel quartetto, quel racconto lo vediamo lo sentiamo lo leggiamo per la prima volta, mettiamo tra parentesi la nostra preconoscenza per poter meglio giocare l’avventura intellettuale della riscoperta e della comprensione. Chiaro che la preconoscenza non cessa, anzi ci aiuta a meglio comprendere un’opera che magari conosciamo a memoria: ma solo la sazia disappetenza dell’annoiato ha bisogno di spezie ed elisir che gli àlterino i sapori noti per procurargli l’effimera eccitazione d’un gusto sempre diverso).

Quel che dico mortifica la creatività del regista? No, perché la creatività – lo sanno tutti, anche se lo dimentichiamo spesso – si alimenta innanzitutto dei limiti che le sono posti; e il suo margine di libertà è comunque sempre amplissimo, nell’interpretazione pertinente del testo musicale e drammatico. È nel regno dell’impertinenza che la creatività appassisce, infestata dall’arbitrio.

 

Gianfranco De Bosio

 

 

L'impostazione del quesito mi sembra un po' teorica. In realtà le principali differenze tra lirica e prosa, per quanto riguarda la regia, sono di carattere tecnico: nella lirica il regista non è l'artefice dello spettacolo, ne forma parte insieme ad altri artisti. I protagonisti veri di un'opera sono – oltre naturalmente al musicista – il direttore d'orchestra e i cantanti principali. Nella prosa l'autore non ha il peso definitivo che ha il musicista nell'opera. Sul testo scritto il regista ha la possibilità di un lavoro personale molto più forte. Nella musica al contrario questa personalizzazione è impossibile. Se si prende ad esempio una qualsiasi aria, ci si rende subito conto che i tempi sono quelli, e le variazioni ritmiche le decide il direttore con i cantanti. Il regista può, se è buon amico del direttore o degli interpreti, ottenere dei consensi o dell'aiuto. Ma non può cambiare la struttura musicale, il ritmo. Quando il musicista è vivente poi, è lui che ha l'ultima parola. Io ho avuto la fortuna di lavorare con Azio Corghi al suo Gargantua, che è stato un successo clamoroso, anche grazie alle scenografie di Luzzati: in quell'occasione il musicista era sempre con noi. In casi come questo il regista può dare una personalità alla messinscena, e venire ricordato più del direttore d'orchestra. Ma se ricordo il mio allestimento del Ballo in maschera a Vienna, con Abbado e Pavarotti, non posso non riconoscere che – anche se la regia era interessante e la scenografia l'aveva firmata ancora Luzzati – il vero protagonista era Abbado. La regia d'opera è costretta a un ruolo marginale di per sé, anche se ci sono alcune fortunate eccezioni. Affrontare Shakespeare o Cechov in un certo senso è diverso, anche perché sono opere molto rappresentate, e quindi l'interesse del pubblico non si rivolge al testo ma al modo in cui viene messo in scena e interpretato. Questo può accadere anche nella lirica, ma c'è sempre il filtro della musica, e dunque del direttore d'orchestra. Una maggiore libertà la si può ottenere nel caso di regie cinematografiche, cioè di opere filmate che diventano veri e propri lungometraggi. In questo caso il regista torna a essere protagonista, sceglie le inquadrature e gli ambienti, mentre il cantante non ha l'obbligo di seguire il direttore d'orchestra, ma solo di andare in sincrono con le immagini. Quanto poi al problema dell'attualizzazione, che vede estimatori e detrattori, io credo che il punto discriminante sia la qualità artistica della regia. Ho visto spettacoli «moderni» magnifici e altri inutili e pretestuosi, e la stessa cosa si può dire delle rappresentazioni in stile classico. Quando l'attualizzazione diventa routine, come accade ora in Germania, diviene convenzionale come una rappresentazione «storica».

 

Paolo Fabbri

 

 

La regia d’opera corre oggi pericoli soprattutto a causa dei registi, che molto spesso sembrano operare incuranti o addirittura a dispetto dei testi, e accarezzare l’idea di presentarsi come co-autori che li reinventano.

È proprio a contatto con un teatro a forte testualità come quello d’opera che il ruolo del regista risulta invece particolarmente delicato. Fatta com’è essenzialmente di un codice grammaticale — la notazione — che contiene indicazioni esecutive di gran lunga più prescrittive rispetto alle altre componenti che essa stessa ingloba (quella letteraria anzitutto, ma anche tutte le dimensioni sceniche), la partitura musicale ha infatti caratteri di definizione molto superiori a qualsiasi testo solo verbale. Dunque, il regista si trova a doversi misurare con una realtà drammaturgica ben più complessa e strutturata (proprio in quanto ben più cogente) di quella del teatro di parola.

Nato come operazione interpretativa intesa a far emergere il profondo dei testi e a renderlo palese al pubblico, il cosiddetto «teatro di regia» negli ultimi decenni è stato spesso vittima di quella deriva arbitraria e superficiale di cui dicevo.

Come nei confronti del patrimonio edilizio, a mio avviso bisogna distinguere con fermezza gli àmbiti d’intervento: evitare le manomissioni — anche geniali — del patrimonio storico, esercitare invece una più ampia libertà inventiva solo su prodotti totalmente nuovi. Se è vero che la dimensione performativa, in quanto estemporanea ed effimera, non ha certo la materialità di un manufatto concreto, è però indubbio che nel momento in cui una musica viene riproposta essa ci si presenta come analoga a qualsiasi altra opera d’arte, anche se intangibile. È all’atto della sua riproduzione sonora che essa si realizza nella sua pienezza, quello è il momento in cui l’ascoltatore/spettatore ne percepisce la concretezza sensibile: dunque, di fatto, la sua transitoria ma non meno reale esistenza. In tali occasioni, menomarne l’integrità o manometterne i connotati equivale a sfregiare un dipinto: il danno non sarà stabile per l’opera, ma per la sua percezione nella memoria dell’ascoltatore/spettatore sì.

L’unico compito del regista, di fronte a un’opera del passato, è secondo me quello di «leggerla» per lo spettatore di oggi, e farsene tramite puntando alla sua sostanza, senza però tradirne la lettera. In cosa consista tale sostanza è la vera sfida per tutti noi, e su di essa dovremmo concentrarci tutti.

Scrivendo nel 1807 a Giovanni Simone Mayr (il più celebre compositore d’opera italiana dei suoi tempi), la famosissima primadonna Teresa Giorgi Belloc non si attribuiva «altro merito, che di passabilmente eseguire la divina Sua musica. Il merito e la gloria d’un bel fabbricato appartengono esclusivamente all’architetto, e l’operaio non c’entra che per la fatica del Suo dorso».

Dunque, in quanto interprete lei poteva ambire al massimo al vanto di efficace esecutrice di volontà creative altrui, non certo arrogarsi i titoli di una qualche fasulla co-autorialità, e men che meno pretendere di saperla più lunga dell’autore. C’era un edificio — l’opera —, c’era chi l’aveva inventato e progettato. Solo dopo venivano tutti quelli chiamati a realizzarlo: a suon di «fatica» del loro «dorso», certo, ma anche — possiamo aggiungere noi, derogando dall’understatement della Belloc — grazie alla loro intelligenza, sensibilità, acume ermeneutico. Il tutto fondato, sempre e comunque, sull’indispensabile conoscenza storica.

 

 

 

Siro Ferrone

 

È economicamente e esteticamente immorale il livello dei cachets dei registi d'opera. Soprattutto se misurato con i livelli di altre retribuzioni teatrali e artistiche nel campo variegato dello spettacolo. Lo stesso si può dire a proposito degli scenografi e – perché no – dei cantanti? Ma nel caso dei registi, la questione si pone in termini anche più gravi poiché – e parlo per le esperienze personali vissute da spettatore o da analista-testimone – il carattere esornativo o autoreferenziale della regia è già di per sé uno spreco intollerabile nella maggioranza dei casi. Rari gli esempi di interpretazioni/allestimenti necessari. Spesso si contrattualizzano registi solo per il loro presunto «nome», perché – si dice – il pubblico «alla moda» li richiede. Sono proprio i segni della decadenza di un’arte che si è fatta tanto tautologica e autoreferenziale quanto accecata dal suo isolamento dal resto della società. Sarebbe necessario imparare a costruire spettacoli e cartelloni di costo minore e trarre dalla condizione di necessità gli stimoli per «inventare». Mezzi minori non significano una minore forza creativa. Anzi, credo proprio che dallo stato di necessità potrebbe derivare un abbassamento della presunzione egocentrica che finisce spesso per sopraffare la drammaturgia musicale. Ci si dovrebbe dedicare meno alla conciliazione delle necessità inderogabili dei cantanti con le necessità inderogabili dell'assetto scenico in cui si rispecchia il narcisismo dei registi e pensare piuttosto a una subordinazione degli uni e degli altri alle ragioni della drammaturgia. Il problema è che la drammaturgia è come la costituzione democratica: dovrebbe regolare i rapporti dei diversi cittadini del palcoscenico, ed è invece un semplice regolamento condominiale che serve a far convivere interessi solo corporativi.

 

 

 

Giorgio Pestelli

 

Pur assecondando le esigenze visive dei tempi moderni (in particolare phisique du rôle degli interpreti, dignità figurativa delle scene ecc.), la regia operistica deve partire dal presupposto che la drammaturgia di un'opera è definita dalla musica: monologhi e pezzi d'assieme, attese e soluzioni, pause fra un scena e l'altra, musica di interni e di esterni, musica notturna e diurna ecc., e quindi non deve contraddire queste posizioni morali e questi «ambienti». L'errore più grave di una regia è quello di credere che la musica sia insufficiente con i suoi mezzi a significare una idea e che pertanto necessiti di una regìa che espliciti idee facili da cogliere, anche se estranee o contrarie a quelle su cui quell'opera è nata.

 Naturalmente, il criterio vale in generale e sarà da fare anche una distinzione da un'opera a un'altra; di solito, i capolavori hanno una regia implicita già realizzata cui è bene attenersi (e il regista di genio saprà sviluppare i motivi dell'opera, metterci «del suo» anche senza smentire quello che l'opera dice da sola), mentre opere problematiche o parzialmente riuscite possono o devono servirsi di un intervento registico più personale, inventivo e innovatore.

 

Michelangelo Zurletti

 

La risposta è implicita nella domanda, quando si parla di regia «in linea col tempo in cui è inserita». Viviamo in un’epoca tecnologica e anche l’opera deve vivere di analoga rapidità, bando ai fronzoli. Ma non è sempre così semplice. Su alcune questioni possiamo essere d’accordo subito: le Norme con le corna, le zingare vestite di stracci, le gitane con le mela in bocca non si possono più vedere. E anche le Norme nei grandi magazzini, le zingare nelle stazioni termali. Ma quando l’essenziale viene eliminato è più difficile consentire. Se Uno dice a Altro «porgimi il nappo», Altro potrà porgergli un bicchiere da osteria o uno di cristallo o una coppa da champagne o un secchio ma qualcosa con cui possa bere o brindare. Siamo arrivati a un risparmio di attrezzeria che supera la miseria. E basta coi frack per discutere dei massimi sistemi sul Walhalla, basta con le fabbriche dimesse o i sottoscala o l’assortimento metallurgico, basta con le divise, con i cattivi vestiti da nazisti. La regia deve alludere, deve darci semmai una seconda lettura ma non sostituirsi agli autori. Se vediamo un Radames che scava una fossa come un becchino e contempla un cranio riesumato non abbiamo più informazioni sulle guerre d’Egitto di quelle suggerite da Verdi. E quale magnanimità possiamo aspettarci da un Selim Pascià tatuato, che emerge dal mare da provetto pescatore subacqueo e fa il trafficante di droga?

 



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