drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

"Il mondo, che alcuni chiamano il carcere"

di Federico Ferrone
  Il profeta
Data di pubblicazione su web 18/05/2009  

Non c'è niente di peggio dei film francesi che scimmiottano il cinema americano. Non c'è niente di meglio dei noir francesi che rielaborano, a modo loro, il cinema americano. Pensate alle vette d'orrore che raggiungono alcune produzioni "americanizzanti" di Luc Besson e a quelle di struggente poesia eroica dei noir di Melville o Jules Dassin. Al di là dei ricorrenti scontri d'idee tra eccezioni culturali e studio system, solo i più feroci nazionalisti potrebbero negare la reciproca influenza che cinema francese e statunitense hanno da sempre esercitato l'uno sull'altro. A partire dal debito da sempre dichiarato dal gruppo dei "Cahiers du cinéma" per alcuni autori americani e, viceversa, quello di registi come Arthur Penn e Bob Rafelson per la Nouvelle Vague.

Jacques Audiard era già riuscito a trovare una sintesi compiuta di queste due anime nel suo precedente e ultra- premiato Tutti i battiti del mio cuore, che nasceva come un remake di Fingers di James Toback, di cui però trascendeva e approfondiva i significati trasponendoli in una Parigi crudele e quasi indistinguibile.

La sua nuova creatura, Un prophète è quindi, innanzitutto, anche un gangster movie in piena regola. La storia dell'irresistibile, dapprima quasi involontaria, ascesa del franco-magrebino Malik El Djebena non può che ricordare quella dello Scarface di De Palma e quella di molti omologhi del cinema criminale americano. Eppure, può sembrare offensivo, c'è di più. O meglio: c'è forse un po' meno azione (che comunque non manca) ma c'è sicuramente più profondità psicologica, un'intensità e un realismo sporco che rendono il paragone plausibile.


Il film si apre mentre Malik, un diciannovenne orfano, poco più che analfabeta, viene incarcerato per sei anni per aver aggredito dei poliziotti. In prigione questi si trova immediatamente incastrato tra due fuochi: da una parte il clan dei "musulmani" (quasi tutti nord-africani), più numerosi ma meno organizzati e spesso in contrasto tra loro; dall'altra quello dei nazionalisti corsi, duri "vecchia scuola", tutti stretti intorno alla figura arcaica del capo César Luciani, interpretato da Niels Arestrup (come sempre strepitoso), che già ricopriva un ruolo simile nel precedente film del regista. Quando César gli ordina di uccidere un suo nemico arabo con una lametta (strepitosa la scena in cui fa le prove dell'omicidio con una lametta in bocca), Malik non riesce a rifiutare. Dopo aver portato a termine la missione, entra così sotto la protezione dei corsi. Ma quando, dopo una legge di amnistia voluta da Sarkozy (esplicitamente citato), molti membri del clan corso sono liberati, il giovane comincia a riavvicinarsi ai musulmani, organizzando un traffico di droga dentro e fuori dal carcere, pur continuando a effettuare missioni per Luciani dentro il carcere e durante i giorni di libertà vigilata. L'ascesa di Malik avviene così in questa specie di doppio gioco (anche se lui, ogni volta che gli viene posta la domanda, giura: "lavoro solo per me stesso"): malvisto dai corsi perché arabo e considerato un traditore dai suoi "fratelli" perché lavora per i corsi, finirà per elevarsi al di sopra delle parti. Quasi come un profeta, appunto.

Abbandonata la collaborazione con lo scrittore Tonino Benacquista, con il quale aveva realizzato, oltre al precedente, un altro piccolo capolavoro, Sulle mie labbra, Audiard adatta un soggetto originale di Abdel Raouf Dafri in cui convergono tutti i topoi del cinema carcerario e del noir: vendette, missioni, droga, tradimenti, guerre di clan etc. Giunto alla regia tardi, dopo una carriera da sceneggiatore, il regista sembra crescere ad ogni film, un passo alla volta. Alla forza delle sceneggiature aggiunge una dimensione tragica e una maestria tecnica capace di raccontarle senza eccessi, con movimenti di macchina secchi ma mai abortiti. Come in Tutti i battiti del mio cuore ripete il contrasto tra una figura paterna (sempre Niels Arestrup) e una più giovane (allora Romain Duris), si arricchisce di un'infinità di storie e personaggi che verrebbe voglia di raccontare tutti: carcerieri collusi, avvocati, spacciatori gitani, amici fraterni, boss di clan rivali.


Per tutta la prima metà l'azione si concentra in prigione: un universo con le sue regole dure e inflessibili, oscuro e sporco. Nella seconda l'oscurità è invece interrotta dagli squarci di sole cui ha diritto Malik durante le sue giornate di libertà. Ma a dominare è sempre, comunque, la prigione, che per i suoi "ospiti", più che un prolungamento del mondo esterno, finisce col coincidere con quest'ultimo.

Una delle forze principali è nell'invenzione del personaggio principale, interpretato magistralmente da Tahar Rahim, attore sconosciuto al grande pubblico e una delle figure più forti del recente cinema europeo. Malik entra in carcere senza quasi alcuna coscienza, analfabeta, senza esperienza del mondo e senza radici. Malgrado un passato da piccolo delinquente sembra dotato di quella purezza ingenua che a volte accompagna, nell'immaginario, i profeti. Dapprima cerca la tranquillità ma poi il carcere gli impone delle prove che, all'uscita dal carcere, lo porteranno a un ruolo di comando: l'uccisione di una persona che poi lo perseguiterà in sogno, la conquista delle fiducia dei corsi di cui imparerà anche la lingua, il recupero della fiducia degli arabi, l'ascesa criminale e infine l'emancipazione dagli antichi padroni. All'uscita dal carcere, sarà un'altra persona.

I film non vanno mai visti, ma solo rivisti, recita un vecchio adagio. Non basta quindi una visione per decidere, ma crediamo di non sbagliarci dicendo che qui si sfiora davvero il capolavoro. Come nel miglior cinema americano, tragedia classica e film d'azione si fondono senza stavolta cedere il passo al realismo. Si viene risucchiati dalla storia e, malgrado la durata, non se ne esce più. Forse solo Cous cous di Abdellatif Kechiche (un'altra pellicola di oltre due ore e mezza), tra i film francesi degli ultimi anni che hanno conosciuto una distribuzione decente, può reggere il paragone con l'intensità di Un prophète.

 

Il profeta
cast cast & credits
 






 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013