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In punta di piedi in onore di Sergej Diaghilev

di Gabriella Gori
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Data di pubblicazione su web 05/05/2009  

Cento anni e non li dimostrano! E’ proprio così Les Ballets Russes di Sergej Diaghilev, apparsi per la prima volta al Théâtre du Châtelet di Parigi il 19 maggio 1909, festeggiano quest’anno un genetliaco storico, celebrato nei teatri di tutto il mondo con spettacoli,  mostre, convegni, retrospettive, per ricordare un uomo e un manipolo di artisti che cambiarono le  regole del ludus sceanicus. Nei venti anni che li videro incontrastati protagonisti della scena europea dal 1909 al 1929, anno della morte dell’impresario Diaghilev, i Balletti Russi segnarono una svolta fondamentale nella musica, nelle arti figurative, nella danza e nel balletto, chiamando a raccolta il fior fiore dell’intellighenzia di quegli anni.

 
Anni straordinari, vivacizzati dalle avanguardie del Futurismo, Cubismo, Surrealismo, Dadaismo, e da un’esigenza di rinnovamento di cui Sergej si fece portabandiera e che coinvolse pittori come Picasso, Gonciarova, Larinov, Rouault, Bakst, Benois, Naum Gabo, Roerich, De Chirico, Mirò, Matisse, Braque, e musicisti come Stravinsky, Ravel, Debussy, Proko’ev, De Falla, Satie, Sauget. Indiscussi maestri decisi a rispondere all’appello del “pietroburghese” e ad adoperarsi per i ‘suoi’ geniali coreografi, Fokine, Massine, Vaslav e Bronislava, Nijinskij, Balanchine, e per i ‘suoi’ talentosi danzatori, Anna Pavlova, Tamara Karsavina, Vaslav Nijinskij, Olga Spessivtseva, Serge Lifar. Veri e propri divi e divine del balletto che affascinarono Jean Cocteau, Gabriele D’Annunzio, Guillaume Apollinaire, autori di libretti e note di sala, e contribuirono sotto l’egida di Diaghilev a realizzare la Gesamkunstwerker.


“L’opera d’arte totale wagneriana” fondata su una concezione unitaria e paritaria degli elementi che costituiscono uno spettacolo e che nella fattispecie erano anche alla base della mise en danse. Una mise en danse  in cui coreografia, scenografia e musica dovevano essere sullo stesso piano per dare vita a brevi creazioni improntate a quella difficilis facilitas che, di matrice classica nei presupposti, con i Balletti Russi diventa moderna nei risultati. E in effetti qual è lo straordinario lascito diaghileviano se non quella capacità di creare ludi scaenici perfetti, in grado di riscattare la danza e il balletto da un ruolo subalterno romanticamente nostalgico o semplicemente virtuosistico, mettendolo al passo con i tempi? Necessario dunque, anzi doveroso, commemorare questo centenario e fra gli omaggi non passano inosservati quelli allestiti dal Teatro dell’Opera di Roma che propone con il Corpo di Ballo, diretto da Carla Fracci, e l’Orchestra dell’Opera, guidata da David Coleman, la formula Les Ballets Russes /1, Les Ballets Russes /2, Les Ballets Russes /3. Uno dei più ricchi carnet diaghileviani del 2009 di cui è necessario sottolineare l’importanza, la riuscita e la bravura degli interpreti. In Les Ballets Russes /2 il palinsesto prevede quattro capolavori che si riferiscono ai tre periodi che hanno caratterizzato la parabola creativa della troupe russa e vengono riproposti nelle versioni originali riprese da Susanne Della Pietra e Millicent Hodson e nelle ricostruzioni sceniche e costumistiche di Maurizio Varamo, Anna Biagiotti e Kenneth Archer.

Al primo periodo, quello legato all’esotismo dell’Oriente favoloso, della Russia primitiva e del retrospettivismo della Pietroburgo imperiale, è da ascrivere Le Sacre du Printemps del 1913, al secondo, quello influenzato dalle avanguardie europee, dalla  Commedia dell’Arte e dal teatro spagnolo, rispondono Parade del 1917 e Pulcinella del 1920, al terzo, quello segnato dal ritorno al codice accademico e dal recupero delle avanguardie sovietiche, corrisponde La Chatte del 1927.  
                        

                    



Le sacre du printemps: Alexandra Iosifidi
 

Le sacre du printemps, la terza prova d’autore di Nijinski dopo L’Après-midi d’un faune, e Jeux, è la messinscena di un rito propiziatorio nella Russia pagana che debuttò con musica di Igor Stravinskij al Théatre des Champs-Élysées il 29 maggio 1913 e infiammò la platea, divisa fra sostenitori e detrattori. Insomma un vero e proprio scandalo per la tematica, il sacrificio di una vergine, l’Eletta, alla Madre Terra, per la musica, piena di dissonanze e sonorità stridenti e percussive, e per la coreografia spudoratamente dissacrante e antiaccademica. E allo shock contribuirono anche la scenografia e i costumi del pittore Nicolas Roerich che parlò di “quadri della Russia pagana”. Quadri oggi riproposti nel rigoroso allestimento di Kenneth Archer.

Nel balletto, ricostruito da Millicent Hodson, si assiste nella prima parte al rigoglioso sbocciare della primavera che coinvolge l’intera comunità con gli uomini che si lanciano in danze sfrenate, inebriati dalla voluttà di profumi e colori. In questo trionfo di vitalità il “saggio” viene portato da un corteo festante nel luogo in cui si compirà il rito della fertilità, mentre tutti come in trance percuotono la terra. Nella seconda parte, quando ormai è notte, le fanciulle iniziano i loro balli rituali e tutti attendono l’arrivo dell’Eletta, la vittima sacrificale che danzerà fino allo spasimo prima di essere sacrificata in un tripudio di vita e di morte. La creazione ancora oggi fa venire i brividi per la sorprendente novità e per il background filosofico che, se non stupisce in un compositore di levatura eccezionale come  Stravinskij, certo non passa inosservato in un ballerino come Vaslav Nijinskij. Sappiamo che Diaghilev incoraggiò Nijinskij a conoscere l’euritmica di Dalcroze, che aveva colpito anche Rudolf Laban, il padre della cosiddetta danza libera europea, e ingaggiò come assistente alla coreografia Marie Rambert. Una ‘dalcroziana’ in grado di aiutare Vaslav a rendere il movimento più naturale possibile partendo dall’en dedans e da passi e figurazioni (cerchi, incroci, spostamenti centripeti e centrifughi ripetuti a canone) che anticipavano le innovazioni della modern dance americana e della Ausdruckstanz europea. Ma oltre a questo nella mente di Nijinskij doveva esserci di più.  Ne Le sacre du printemps è palese l’imperversare dello spirito dionisiaco nietzscheano nella partitura musicale e coreografica, ma ugualmente spicca, sempre del filosofo tedesco, il tema della “fedeltà alla terra e al corpo” trattato in Così parlò Zarathustra. Una fedeltà che è totale  accettazione dionisiaca della vita così com’è e che si realizza in terra, una terra che cessa di essere una prigione per divenire il concreto modo di essere dell’uomo nel mondo e il simbolo del suo rigetto della metafisica e dell’iperuranio delle illusioni romantiche. Principi che ne Le sacre s’inverano nella ribellione alla cosiddetta danza en vol a favore di una danza par terre con cui il corpo riprende il proprio peso, mettendo tutta la pianta dei piedi sul pavimento, e riscopre quell’humus a cui dobbiamo inevitabilmente tornare per morire e rinascere in un perenne ciclo di distruzione e di ricreazione.  

E questo formidabile balletto “biologico”, come all’epoca scrisse il musicologo Jacques Rivière e – aggiungeremmo noi – “nietzscheano“, riprende vita grazie al Corpo di Ballo romano che lo interpreta in modo egregio come egregia risulta anche la performance di Alexandra Iosofidi nel ruolo dell’Eletta. Un ruolo che la prima volta fu affidato a Maria Piltz che sostituì Bronislava, la sorella di Nijinskij, impossibilitata a cimentarsi in una coreografia così ‘pericolosa’ per l’incipiente maternità. Agli antipodi de Le sacre du printemps è Parade che Apollinaire, curatore del programma di sala, definì un “ballet surrealiste” in occasione del debutto al Théâtre du Châtelet di Parigi il 18 maggio 1917. Una première che sconcertò critica e pubblico per l’inusuale messinscena di Léonide Massine,  la musica di Erik Satie, il décor di Pablo Picasso e il libretto di Jean Cocteau.

 



Parade:C. Onidi, C. Cocino, M. Paruccini, C. Marigliano
 

Parade, riproposto da Susanne Della Pietra con il riallestimento di Maurizio Varamo e Anna Biagiotti, è una vetrina di artisti di strada che, una volta alzato l’immaginifico sipario dipinto da Picasso, lascia il posto a un’ambientazione surreale in cui si muovono personaggi di pura fantasia e individui in carne ed ossa. Davanti ad un teatro due Manager richiamano l’attenzione di un pubblico immaginario presentando a turno i performers che si esibiscono nei loro numeri. Alla fine il crollo del sipario sui due imbonitori segna il triste finale di uno ‘spettacolo-non spettacolo’ ovvero non andato in scena nel senso classico ma ugualmente agito. Il presunto pubblico infatti divertito dalle esibizioni gratuite è andato via, lasciando sconsolati i malcapitati artisti. Ma se questi ultimi nella finzione scenica non ottengono i meritati applausi, li ricevono copiosi dagli spettatori in sala che, partecipi del ludus metateatrale, applaudono alla rottura dell’illusione scenica e agli interpreti di questa meravigliosa ‘trovata’.

E parlando di esilaranti trovate troneggiano i Manager, due “gigantesche cariatidi ambulanti” d’ispirazione cubista, europea la prima in frac, pipa, bastone da passeggio, e americana la seconda con grattacieli, megafono e cartello con su scritto “PARADE”, portate in giro da due ballerini di cui si vedono solo le gambe. Anche un enorme cavallo strappa le risa, specie quando mima degli sgraziati galops e, mosso da due danzatori, atteggia la testa o mostra irriverente il didietro. A queste figure da cartoons si affiancano il prestigiatore cinese, in gualdrappa rossa e oro, un’antipatica Bambina americana e una coppia di acrobati in un “incidente organizzato” – per usare le parole di Cocteau – visibile anche nella sovrapposizione di diversi linguaggi. Quello accademico degli acrobati, i bravi Sara Loro e Massimo Garon, quello mimico del prestigiatore, il divertente Paolo Mongelli, quello da cinema muto della Bambina, la capricciosa Cristina Mirigliano, quello di animazione del cavallo, gli spassosi Paolo Gentile e Francesco Marzola, quello meccanico dei Manager, i buffi Sergio Grandoni e Giovanni Martelletta.

 



Pulcinella: Alessandra Amato
 

Altra perla di questa bella serata romana è Pulcinella, rappresentato per la prima volta al Teatro dell’Opéra di Parigi, 15 maggio 1920 con musica di Igor Stravinskij, coreografia e libretto di Léonide Massine, scenografie e costumi di Pablo Picasso. Un balletto che fonde con non chalance le composizioni da opera buffa di Pergolesi a cui si ispirò Stravinskij, gli intrecci dei canovacci della Commedia dell’Arte, la scenografia cubista di una Napoli geometrica e stilizzata, i costumi settecenteschi, la coreografia accademica di Massine, per rappresentare un divertissement amoroso in salsa partenopea riallestito da Maurizio Varamo e Anna Biagiotti e ricostruito da Susanne Della Pietra.  Coviello e Florindo sono innamorati rispettivamente di Rosetta e Prudenza e cercano di ottenerne i favori ma senza esito. Entra in scena Pulcinella che con i suoi volteggi affascina le ragazze, intenzionate a conquistarlo e a dimenticare i loro spasimanti. Il cuore di Pulcinella però batte solo per Pimpinella e le due giovani napoletane capiscono che non c’è niente da fare quando li vedono danzare insieme. Coviello e Florindo, rosi dalla gelosia, aggrediscono Pulcinella che con uno strattagemma si finge morto, ma in realtà il finto morto non è lui ma Furbo, un amico che ha preso il suo posto e viene portato via fra pianti e lacrime, mentre un mago promette di resuscitarlo. Ad un certo punto dal mantello del mago scappano fuori due Pulcinella, quello vero e quello falso, e Pampinella fugge spaventata. In un crescendo comico tornano alla carica Coviello e Florindo vestiti da Pulcinella per conquistare le loro innamorate e si arriva ad avere quattro Pulcinella in una generale confusione che si chiarisce solo con l’intervento del vero Pulcinella che svela la sua identità. Alla fine una festa prelude alle nozze di Rosetta e Prudenza con Coviello e Florindo e alla ritrovata  felicità di Pulcinella con Pimpinella. Pulcinella è una riuscita contaminazione fra danza colta e danza popolare, fra gestualità della commedia dell’arte e pantomima ballettistica, e diverte per le variazioni classiche delle tre coppie di innamorati, per i richiami alla tarantella, al saltarello e alla tipica atmosfera della commedia dell’arte, accentuata dalle compresenza delle  maschere del Dottore, di Tartaglia e dei  padri della ragazze. Claudio Cocino nei panni di Pulcinella, che furono dello stesso Massine, sorprende per vitalità ed energia, Gaia Straccamore è deliziosa nel ruolo di Pimpinella, ruolo che per prima ricoprì Tamara Karsavina, e all’altezza sono i comprimari Cristina Mirigliano (Prudenza), Anjella Kouznetsova (Rosetta), Domenico Casedone (Furbo), Paolo Mongelli (Coviello), Paolo Gentile (Florindo). Senza dimenticare le splendide voci del soprano Arianna Morelli, del tenore, del basso Alessandro Svab, che contribuiscono a inverare i principi della Gesamkunstwerker wagneriana.
 

                                                    



La Chatte: Gaia Straccamore e Vito Mazzaro  
 
 
 

La Chatte su musica di Henri Sauget, coreografia di George Balanchine, ricreata da Millicent Hodson, scene e costumi di Naum Gabo, ricostruiti da Kenneth Archer, debuttò a Montecarlo il 30 aprile 1927 con il prestante Serge Lifar e l’elegante Olga Spessivteva, che poi passerà il testimone all’inglese Alicia Makarova. Ispirato ad una favola di Esopo, il libretto scritto da Boris Kochno racconta di un giovane che, innamoratosi di una gatta, chiede ad Afrodite di trasformarla in una donna per poterla sposare. La dea acconsente e trasforma la Chatte in una splendida fanciulla ma la metamorfosi sarà definitiva solo dopo aver superato una prova. Così Afrodite libera un topolino e la ragazza, che è e resterà una gatta, si lancia all’inseguimento perdendo la sembianza umana e lasciando disperato il giovane che viene portato via dai suoi amici in una sorta di cerimonia funebre. Al suo apparire il balletto colpì per la scenografia e i costumi di matrice costruttivista nell’uso di materiali trasparenti, di metalli lucidi, di caschi, di corazze di mica, di  attrezzi ginnici, e ancora oggi questa fabula piace per l’originalità del dettato coreografico. E proprio “l’idiolessi” di Balanchine, ovvero il suo stile già in nuce neoclassico, merita particolare attenzione per il netto contrasto con la scenografia costruttivista e per le aperture verso le avanguardie, richiamate dall’atletismo delle sequenze di gruppo, come nella scena della piramide umana, dal protagonismo del corpo maschile, dall’utilizzo accessorio delle punte della Chatte, una deliziosa Sara Loro, affiancata da un ottimo Massimo Garon e da un pregevole sestetto.

 

Applausi calorosi e convinti hanno salutato gli interpreti e decretato il successo di una serata che a distanza di cento anni consente di rivivere quel magico tripudio di idee, suoni, luci, colori, che hanno fatto e faranno ancora la storia della musica e delle arti figurative ma soprattutto della danza e del balletto.       


Les Ballets Russes /2


Pulcinella
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La Chatte
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Parade
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Le sacre du printemps
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