Nello spazio del Teatro Piccolo Arsenale di Venezia è andato in scena Winter Gardens, prodotto dal BITEF di Belgrado e dalla Biennale di Venezia, nellambito del progetto ENPARTS (European Network of Performing Arts) che riunisce un gruppo di grandi istituzioni performative della comunità europea.
La regia è di Nikita Milivojević, un artista che nella fase più critica della disgregazione dellex Jugoslavia ha scelto di lavorare altrove, anzitutto in Grecia, luogo in cui ha incontrato Dimitris Kamarotos, che firma le musiche dello spettacolo veneziano, e poi in Francia, Svezia, Slovenia e di nuovo in Serbia, dove attualmente dirige il teatro e il festival BITEF. Il continuo errare sembra avere inciso sulla sua poetica oltre che sulla propria quotidianità, al pari di tanti esuli, più di 700.000 su circa otto milioni di cittadini, che negli anni delle guerre balcaniche degli anni Novanta e nel 2004 hanno abbandonato la loro patria.
La diaspora dei giovani serbi è infatti il tema centrale dello spettacolo; lazione descrive, entro la cornice di un deposito di bagagli e di bauli che si muovono sospinti dalle gambe dinvisibili corpi, le schegge dellesistenza di un gruppo di persone la cui vita è proiettata altrove. Non esiste una trama, ma alcuni spunti descrittivi che provengono da frammentarie e-mail, dalle virtuali interconnessioni della rete o dallimmediatezza delle chat, senza seguire un preciso sviluppo drammaturgico. Emergono fatti autentici, accaduti davvero a esseri sconosciuti, che stabiliscono forse unamara corrispondenza con la disgregazione culturale del mondo contemporaneo.
Sotto il giogo dellemigrazione le esistenze che il regista evoca, entrando nella sfera del loro privato, trovano un labile equilibrio nelle confessioni di amori privati, nelle preoccupazioni grandi e piccole, in ciò che vedono i loro occhi di esseri appartenenti ad una generazione perduta.
Vi agisce una schiera di attori interessanti, molto applauditi dal giovane pubblico presente, una compagine che agisce, spesso mimicamente, entro e fuori dallo spazio rappresentativo, perché sconfina nei sistemi multimediali, soprattutto nei video che il regista utilizza come un necessario prolungamento della realtà. Savverte, però, una sfasatura tra la rilevanza delle narrazioni, non sempre coerenti con lintento politico, e il desiderio di realizzare una rappresentazione catartica.
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