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L'impotenza del tempo

di Marco Luceri
  Brad Pitt
Data di pubblicazione su web 04/03/2009  
Privato degli Oscar più importanti a cui era candidato nella notte delle stelle appena trascorsa, il chiacchierato ultimo film di David Fincher, appare oggi, fuori dal circuito mediatico e divistico legato alla cerimonia dell’Academy, un film originale, coraggioso e tutto sommato ben riuscito, se si esclude magari qualche ridondanza di troppo. Lo scriviamo per rendere giustizia a una pellicola che è forse stata troppo frettolosamente oggetto di ingenerosi e veementi attacchi da parte della critica (soprattutto europea). Il curioso caso di Benjamin Button sembra invece proporre diversi spunti di riflessione assai stimolanti.

Il primo è sicuramente la fonte da cui è tratto, un racconto semisconosciuto di F. Scott Fitzgerald, il grande scrittore americano, insuperabile cantore dei vizi e del degrado morale dell’Età del jazz, cioè quel periodo che va sostanzialmente dalla fine della prima guerra mondiale alla crisi del 1929. Un decennio di crescita, di dissipazione e di trasgressione che segnò anche il crepuscolo di un mondo che aveva creduto, illudendosi, che il futuro non sarebbe mai arrivato, se non per essere tremendamente più bello e libero del già fulgido presente. Non è forse un caso che la storia di Benjamin Button, un orribile, piccolo mostro nato dal grembo di una donna bianca, poi rifiutato e abbandonato in casa di una serva nera, inizi proprio alla fine della Grande Guerra, con gli USA vittoriosi e in festa. Questo feto nato quasi morto ha sul suo corpo i segni di un invecchiamento non precoce quanto ontologico, salvo poi scoprire durante il film che le lancette della sua esistenza (come l’orologio della stazione di New Orleans realizzato in memoria dei caduti in guerra) vanno indietro, invece che in avanti. Il tempo insomma lo fa ringiovanire.



Qui sta il cuore della vicenda e del film: lui, da vecchio, ringiovanisce, mentre gli altri, da giovani, invecchiano. Da questo punto di vista, tutto diventa fuori controllo, e quello che rimane è una sorprendente panoramica di volti e corpi fantasmali di una nazione, di una civiltà e di un mondo intero destinato a un irreversibile invecchiamento. Non è infatti il corpo estraneo, Benjamin Button, ad apparire nel film irrimediabilmente compromesso con le brutture della vita, ma al contrario tutti i personaggi del film che gli stanno accanto: proprio perchè nato vecchio, ma con un cervello da bambino, egli riesce a comprendere il mondo, laddove gli altri faticano sempre di più a trovare una ragione stessa della loro esistenza. Forte di questa sorta di naïveté innaturale almeno quanto la curiosa evoluzione del suo fisico, Benjamin sopravvive a tutte le età, restando sostanzialmente puro, arrivando a conoscere i sentimenti umani molto più profondamente degli altri: il senso della vita e della morte, l’attaccamento materno, il valore del lavoro e dell’amicizia, l’amore per la propria donna e per la propria figlia. Mentre il mondo intorno a lui si avvia a un complesso disfacimento corporeo e morale (splendida metafora, ribadiamo, dell’America fitzgeraldiana, nonché tremendamente attuale) il suo sguardo conserva sempre l’innocenza della ragione più pura e per questo alla fine, pur morendo, resta l’unico personaggio veramente vivo del film.



L’immagine stessa del divo Brad Pitt, appare come una fenice fuori dal tempo: dapprima mostruosamente deformato dietro un trucco pesantissimo, pian piano la sua figura "divina" di bianco, alto, bello e pulito riacquista fulgore, come se si esaurisse in sè, tornasse cioè agli albori senza tempo delle forme pure, in una sorta di michelangiolesca figura che esce fuori a forza dal guscio, ancora una volta del tempo. Magie del cinema che crea, trasforma, distrugge e non sempre necessariamente in quest’ordine temporale. Accanto a lui spiccano le due grandissime prove di Cate Blanchett, diventata ormai a pieno titolo una delle più importanti interpreti del cinema contemporaneo, che crea un miracoloso equilibrio tra la dimensione fisica e quella cerebrale del suo personaggio, una Daisy ragazzina, amante, donna e madre sempre credibile e profonda. Non da meno l’interpretazione della diafana e ossuta Tilda Swinton, che invece conferisce un’inaspettato spessore alla sua parte, quella di Elizabeth, che sembra uscita da un fumetto di Hugo Pratt.



Il resto è messo insieme dall’abilissima regia di Fincher. Il fatto che il film si perda in mille rivoli e appaia sempre comunque ben strutturato non è un limite, ma una notevole capacità di manipolare il montaggio in modo tale da creare le condizioni per continue fuoriuscite da una linearità classica continuamente esibita, creata, sgretolata e poi di nuovo ricostruita. Se poi la messinscena cede spesso al gusto post-moderno per la citazione, al bell’effetto, alla tipizzazione più stereotipata di molti personaggi, lo si deve anche all’eccezionalità della vicenda narrata, al rifiuto stilistico e poetico per ogni tipo di verosimiglianza. Eppure Il curioso caso di Benjamin Button rappresenta una delle rare volte in cui questo tipo di cinema riesce a parlarci drammaticamente della realtà più cruda e dura. La figura del narratore, inserito all’interno della diegesi e sdoppiato in due (la vecchia Daisy morente sul letto d’ospedale che ascolta dalla figlia le parole scritte da Benjamin nel suo diario di una vita) si trova nel mezzo di una tempesta reale: è il 2006, l’uragano Katrina, con un’inaspettata quanto micidiale violenza sta per seppellire per sempre New Orleans, portandosi via tutto quel carico di ricordi, musiche, uomini, donne, avventure e sentimenti che la Storia ha conservato e tenuto in vita. E’ la fine, definitiva, dell’età del jazz e dei suoi più maturi epigoni. E così l’impotenza degli uomini diventa l’impotenza del Tempo.





Il curioso caso di Benjamin Button
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