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Il latte amaro della violenza

di Sara Mamone
  Il canto di Paloma
Data di pubblicazione su web 14/02/2009  
Seconda prova in lungometraggio della giovane e dotata sceneggiatrice e produttrice peruviana Claudia Llosa (il primo Madeinusa è stato ben accolto e largamente premiato) La teta asustada è un film senza paura ma, al tempo stesso, sfiorato da un certa sensazione di inautenticità. O, meglio, può essere visto come un film scommessa: la sfida, coraggiosa e al tempo stesso abile, di una giovane autrice di penetrare nella carne ferita della storia del suo paese e, insieme, attraverso la cultura e un’attenzione quasi antropologica ad essa, uscirne non con un giudizio ma con un atto poetico di riscatto.

Tutto è infatti apparentemente semplicissimo in questa storia non detta (il film ha il grande merito di essere parlato pochissimo), che si affida all’espressività attonita della protagonista Magaly Sollier e ad una tecnica di ripresa che non risparmia accentuazioni grottesche più esplicite di qualunque discorso.


 
Così semplice da essere quasi vicino ad una fiaba. Naturalmente una fiaba che conserva tutte le crudeltà ancestrali, e si nutre del dolore di una situazione politica reale tragica quant’altre mai: quella della violenza sulle donne nel periodo del terrorismo che ha martirizzato il paese nel ventennio tra gli anni ’80 e il 2000. La "commissione per la verità e la riconciliazione", creata nel 2001 ha registrato 70.000 assassinii, oltre ad un numero indefinibile di stupri e altre violenze sessuali. Fausta soffre di una malattia che non ha spiegazione scientifica, il "latte della paura", sorta di contaminazione del latte materno a causa della paura sofferta dalle donne violate, come, appunto, la madre della protagonista. Quando questa muore la giovane è costretta a misurarsi direttamente con le sue paure e a mettersi in qualche misura in contatto col mondo.

Portata da un zio ad una visita medica nella lontana capitale, rivela nella sua vagina una patata, una sorta di scudo messo a protezione della sua verginità. Il rifiuto di levarla coincide con l’ossessione per un degno funerale alla madre a cui resta legata da un morboso rapporto di dipendenza. La necessità di guadagnare i soldi per il funerale la porterà nella capitale (al servizio di una bizzarra signora) dove a poco a poco la prigione difensiva che si è costruita si apre a piccoli spiragli, fino alla maturazione che la porterà a decidere di togliere lo "scudo" e ad aprirsi, finalmente, ad una vita normale. Il sorgere della fiducia nei confronti del giardiniere della villa e l’inizio di un dialogo personale fatto attraverso piccole conoscenze comuni di elementare botanica è tra le cose più belle del film, come l’impercettibile trasformazione di questa fiducia in amore.



Inevitabilmente meno toccato dalla grazia il film nelle sue parti più esplicite, quali il caricaturale dispendio per cerimonie nuziali e la tragica spersonalizzazione del rito collettivizzata da una speculazione commerciale senza gusto e senza scrupoli.









Il canto di Paloma
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Claudia Llosa


 
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