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Lamento per Bulgarelli
di Roberto Fedi


di Roberto Fedi
  Giacomo Bulgarelli
Data di pubblicazione su web 14/02/2009  

Giacomo Bulgarelli, bolognese (anzi di Portonovo di Medicina, lì vicino, in provincia), giocò tutta la vita nel Bologna, e a Bologna è morto qualche giorno fa, prematuramente. Un caso quasi unico, irripetibile, lontano mille miglia dal mondo di oggi, dove mercenari (pardon) in mutande cambiano maglia ad ogni spirar di assegno, e non ci sono più – come si diceva una volta – le “bandiere”. Ci è dispiaciuto perché era stato un grande giocatore, e sicuramente doveva essere un signore: nei modi, nel parlare, e per come commentava un tempo alla televisione (prima Montecarlo, poi altre) le partite di calcio.

Hanno fatto rivedere, come sempre in questi casi, spezzoni di partite ai Tg: che sembrano uscite da un film in costume girato male. Bianco e nero sbiadito, a mala pena si vedeva il pallone perché il cameraman non era attento nell’inquadrare, riprese da lontano. Altri mondi. I calciatori erano capelluti e zazzeruti e baffuti (per un po’ anche Bulgarelli portò i baffi), avevano magliette senza sponsor e con i numeri rigorosamente dall’1 all’11, senza il nome sopra perché nessuno aveva ancora pensato che così si sarebbero vendute. Le magliette poi erano strette, a pelle, e così i pantaloncini, secondo la scomodissima moda dell’epoca degli anni tra la fine del Sessanta e l’inizio del Settanta; e qualche volta ci vien fatto di chiederci come si facesse, in Tv, a distinguere le due squadre, se per esempio c’era in campo il Bologna o il Cagliari (rossoblu) o l’Inter (nerazzurra) o il Milan (rossonero). Ci voleva un certo sforzo di immaginazione, a dire la verità.

Ma in campo c’erano magari Mazzola, Rivera, Riva: e Bulgarelli. E allora si capiva subito, in quel calcio un po’ lento e senza tanti schemi, chi era che aveva la palla in quel momento. Si capiva da come si muovevano, da come toccavano il pallone (senza sponsor anche quello, anzi spesso di un cuoio marrone che quando pioveva diventava del color del fango), da come calciavano squassanti in porta (Riva) o facevano il passaggio millimetrico, il cross, il lancio. Lui era bravissimo: era di quelli, come si diceva allora, che in campo “accendevano la luce”. Aveva vinto molto, dato che non giocava in una delle tre grandi ma a Bologna; era stato ovviamente in Nazionale, ed anche “coinvolto” nella celebre partita che l’Italia perse con la Corea, nei mondiali del 1966: non per colpa sua, naturalmente, ma del Fato, di una squadra brocca e di un allenatore che perse la trebisonda, e lo fece giocare anche se era infortunato (dopo aver lasciato a casa Riva: e dico poco), e che Brera chiamava “il tortellino”, visto che era piccolo e anche lui bolognese. Alla televisione, sciocchi come sempre, hanno ricordato più questo che lo scudetto vinto col Bologna (un miracolo) e il campionato europeo, vinto anche quello. Cialtroni.

Come commentatore era sobrio, gentile, competente, bravo, con un accento bolognese appena nascosto che non dispiaceva. Parlava come si muoveva in campo, preciso, senza strafare, senza isterismi. Insomma, come un signore. Si capiva che il calcio gli piaceva e gli era piaciuto, ma che non era un fanatico, né lo era mai stato.

Le immagini che abbiamo visto in televisione erano, come sempre accade quando non si tratta di fare un servizio sui politici o su Sanremo, sciatte. Non avevano fatto alcuna ricerca nelle “teche”, come dicono loro, e avevano preso le prime che capitavano a tiro. Non gli hanno reso giustizia. Lo ripetiamo: cialtroni.






 



 
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