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Il senso tragico della Storia

di Sara Mamone
  London River
Data di pubblicazione su web 12/02/2009  

Piccolo film, piccolo budget, molti tic del film documentario (camera a mano, riprese “sporche” nei quartieri sfavoriti) ma grandi emozioni nell’ ultimo film di Rachid Bouchareb, regista francese di origini algerine, da sempre appassionato interprete del disagio dello sradicamento e da qualche anno voce riconosciuta del cinema internazionale. Il film comincia in minore, come un film privato, un piccolissimo kammerspiele di provincia, con una matura signora inglese intenta alla sua ripetitiva ma serena vita paesana, tra lavori e passeggiate, poche relazioni, un po’ di televisione che la collega col mondo. Siamo nel luglio del 2005 e proprio quella televisione, in sottofondo, dà a lei e al mondo la notizia dei plurimi attentati nella capitale inglese: non si sa niente, non si capisce niente, solo che quattro attentati terroristici hanno preso di mira i centri nevralgici della città: si saprà a poco a poco che la matrice è islamica e che gli attentatori sono giovani inglesi di origine pakistana. Sarà uno choc non inferiore a quello dell’11 settembre. Ma Elisabeth non ha grandi interessi politici, la sua reazione è un istintivo sussulto materno, poiché a Londra vive sua figlia. Una chiamata al cellulare, così, tanto per rassicurarsi. Il telefono non risponde, la figlia richiamerà. Ma il telefono non squilla, la figlia non risponde alle successive chiamate ed Elisabeth, sempre più inquieta, parte per la capitale per la sua personale ricerca. E lì incontrerà, con la sua personale storia, la storia di un uomo che fa la stessa ricerca, ma di suo figlio, un uomo che di lui sa ancora meno di quanto Elisabeth scoprirà di sapere di sua figlia.


I ragazzi stanno insieme, lei così bianca, lui così nero, la piccola storia comincia a colorarsi di Storia, di incomprensioni culturali, di modeste presunzioni isolane, di pregiudizi inconsistenti. Nel nulla assoluto gli indizi cominciano a definire la vita serena e curiosa di una giovane coppia che si è allontanata dalle famiglie di origine ma, insieme, cominciano a definire i contorni di un’assenza che sempre meno si configura come privata; i giovani cominciano ad entrare nei protocolli (in questa Berlinale quanti protocolli abbiamo visto definire, più o meno efficienti ma sempre incuranti, le vite  degli altri,? Si vedano Messenger e Storm) e i due genitori cominciano il calvario dei luoghi di riconoscimento: posti di polizia, ospedali, obitori da dove escono con sollievo, sfiorando però sempre più la disperazione degli altri. Dopo un breve momento di speranza che li allontana dall’altrui dolore arriva la tremenda notizia del riconoscimento tramite il DNA. La Storia ha picchiato duramente.

Ci sono, in quest’opera dall’emozione sempre molto forte, due film paralleli, quello politico che non riesce a superare del tutto semplificazioni e schematismi, che non sempre nasconde piccoli vuoti di sceneggiatura, ingenuità persistenti soprattutto alla fine quando il regista pare non sapersi staccare dal suo discorso. E c´è un altro itinerario, che forse il regista non sa di aver compiutamente percorso e che è fondamentalmente debitore ai due grandissimi interpreti, Brenda Blethyn e Sotigui Kouyate. È l’itinerario dei sentimenti privati, con la loro irragionevolezza, con l’assolutezza che non deve rendere conto delle smagliature di sceneggiatura, c’è, al di là di forse troppe intenzioni, il senso tragico della Storia che ha separato, senza che ci siano grandi colpe, la generazione dei padri da quella dei figli. Ad ogni latitudine.

 

London River
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