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La differenza fra legge e giustizia

di Sara Mamone
 
Data di pubblicazione su web 11/02/2009  

Hans-Christian Schmid è una delle punte della nutrita presenza tedesca del festival berlinese che quest’anno, senza nulla tralasciare della sua vocazione alle cinematografie “altre”, ha deciso di dar voce anche ai talenti domestici. Facendo, per quanto riguarda Storm, non bene ma benissimo, poiché il film è tra i più belli e coraggiosi tra quelli presentati fino ad ora. Coraggioso non nella forma che è quella di un solido realismo cinematografico, nella miglior tradizione dei film politici, ma nella sostanza, cioè nell’humus morale che lo nutre e che prende la forma di un linguaggio anche visivo chiaro, nitido, inequivoco: il film si affida infatti ad una solidissima sceneggiatura che non ha smagliature e all’interpretazione impeccabile di un gruppo di attori intelligenti e misurati anche nella smisurata drammaticità della vicenda. Che è quella di uno tra i meno noti misfatti della Guerra jugoslava e cioè la deportazione e la morte di civili musulmani bosniaci a Kasmaj (ora nella piccola repubblica Srpska) per colpa del generale Goran Duric.

Il film è la piana ed inequivocabile dimostrazione della “differenza tra legge e giustizia” (frase sconsolata pronunziata da Bruno Ganz in un altro film della mostra, The Reader, e in certa misura uno dei temi conduttori della mostra intera). La frase non è gridata e neppure pronunciata ma è questa sconsolata certezza che accompagna per tutto il film, e anche dopo.  È un film che ci obbliga a chiedere scusa, perché non analizza responsabilità collettive del passato, quando in fondo si può con difficoltà ma senza troppe conseguenze dire “chiedo scusa ma tanto io non c’ero, infatti è successo tanto tempo fa”.  Qui ci siamo tutti, con la nostra presunzione di giustizia, con le nostre istituzioni migliori, quali, appunto, la corte di giustizia internazionale dell’Aja che è la vera protagonista, nella persona di Hannah Maynard, procuratrice del tribunale penale, bella, sensibile, elegante nella sua bella casa, con il marito diplomatico autorevole e consorte affettuoso. Una piccola delusione di carriera non le impedisce di buttarsi anima e corpo nel processo che dovrebbe condannare il criminale. Quando il più importante testimone dell’ accusa si rivela inaffidabile il tribunale invia una delegazione in Bosnia per un sopralluogo.

Qui ognuno dimostra di non essere all’altezza del difficile ruolo, a cominciare dalla procuratrice, insensibile alla disperazione del testimone e urtata dalla sua inaffidabilità processuale. Quando il testimone si impiccherà, Hannah, toccata dalla propria inadeguatezza, proseguirà la sua inchiesta riuscendo a trovare una sorella che, scampata al massacro, si è ricostruita una vita (ovviamente con molte ombre) in Germania.

La macchina si rimette immediatamente in moto, la “giustizia” si impadronisce della possibile testimone che, dopo molte reticenze, decide di presentarsi al processo. Ma la macchina comincia ad incepparsi, tra incredibili superficialità (anche qui gli stupidi protocolli studiati a tavolino e incapaci di far fronte alle difficoltà reali, le ambizioni personali, la inesperta presunzione di personale impreparato) e più gravi mancanze. Non sono solo gli avvocati di Duric a tentare di impedire la testimonianza della giovane bosniaca: la stessa avvocatessa si accorge che a nessuno importa di averle sconvolto la vita, né tanto meno della verità. Un buon accordo politico può non averne bisogno. La politica ha delle ragioni che la giustizia non conosce. De te fabula narratur.


Storm (Tempesta)
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