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Un lavoro corretto ma senza molto da dire

di Sara Mamone
 
Data di pubblicazione su web 09/02/2009  

È superfluo spiegare ai lettori chi sono i mammut, anche se il regista ritiene necessario darne un’esplicita definizione nel corso del film, pieno di buone intenzioni, onesto e narrativo, di solido mestiere e di bella resa visiva: il che è il meno che si possa chiedere ad un selezionato nel programma ufficiale di Berlino. A meno che non abbia qualcosa da dire e allora passi pure un linguaggio approssimativo. Qui invece da dire non c’è granché, anzi, c’è moltissimo, cioè troppo, ma senza alcuna originalità, senza anima. Basterà quindi, per spiegarci, il racconto della trama di cui il regista è autore e responsabile e l’identificazione dei mammut: siamo noi, uomini e donne dell’occidente col nostro disorientamento e i nostri eccessi, stritolati da modelli che ormai ci sovrastano.

Leo, giovane inventore di un sito di giochi che lo ha scaraventato nel mondo miliardario degli affari, vive in un meraviglioso loft newyorkese con la moglie Ellen, chirurga di pronto soccorso, e la deliziosa figlia. “Vivere con” è forse eccessivo, poiché, anche nelle migliori intenzioni, tutto è abbastanza spostato, dall’amore fatto frettolosamente tra una telefonata e l’altra, al rapporto con la figlia, anche questo frettoloso e intermittente. Per fortuna la bimba ha un punto di riferimento solido nella “nanny” filippina Gloria, paziente, materna, capace di vero rassicurante affetto. Un ennesimo viaggio di affari porterà il protagonista in Tailandia, dove il film darà il peggio di sé (ma i lettori avvertiti se lo immaginano) mentre in montaggio alternato vediamo svolgersi anche la vicenda newyorkese (con passione professionale, gelosie materne e infruttuosi tentativi di più autentici rapporti domestici) e quella filippina (con la nostalgia lancinante del figlio più piccolo, privato di quella presenza che la mamma destina invece alla piccola “padroncina”, con il fratello maggiore che tenta inutilmente di compensare l’assenza).Tutto precipita quando l’adolescente Salvador, illuso di poter far tornare la mamma procurando lui il denaro necessario, cade vittima (ebbene sì, anche questo avremmo preferito non raccontarlo) dell’inevitabile pedofilo bianco. La sua morte sarà parallela a quella di un piccolo immigrato nel pronto soccorso della grande mela.

Tornato emotivamente stremato, ma anche ricaricato, il nostro Leo, appesantito di regali, ritrova la sua famigliola, mentre la moglie, consolata da questo abbraccio, si riprende dallo stress per la morte del giovane paziente e chiude il film con la frase: “troveremo un´altra nanny?´”.

Niente da ridire sugli attori, tutti a posto, a partire dalla bella Michelle Williams (ipercinetica e disorientata al punto giusto), da Marife Necessito (nella comunque facile parte della tata filippina), ai tre piccoli protagonisti (forse i veri e più riusciti destinatari del neo feuilleton). La parte migliore del film è però Gael Garcia Bernal, che, sfumato, inquieto, con l’improvvisa luce del suo sorriso infantile, riesce a rendere sopportabile persino una scopata tailandese. Gliene siamo grati.


Mammoth
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