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Il gioco è una cosa maledettamente seria
di Roberto Fedi


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  Giampaolo Dossena
Data di pubblicazione su web 08/02/2009  

 E pensare che aveva cominciato, dopo la laurea a Pavia con Lanfranco Caretti, con l’edizione scientifica della Vita di Vittorio Alfieri: libro bellissimo, forse la più grande autobiografia mai scritta da un italiano, ma certo tutto fuorché un testo ‘leggero’ (1967). Eppure, anche lì, la cura filologica non impediva alla prefazione di essere scritta in modi non dico inconsueti, ma non pesanti né accademicamente insopportabili, e sorprendentemente chiari. Forse, a pensarci bene, nell’Astigiano furente lui, che era nato a Cremona nel 1930,  dove è morto pochi giorni fa, un pochino doveva essersi riconosciuto: riservato, disilluso, anche un po’ egocentrico, e certamente fuori dal mainstream dell’accademia. Così come l’Alfieri si era ‘spiemontizzato’, come diceva lui stesso, forse Dossena si era ‘disaccademizzato’, lavorando fuori dall’Università – ma, a dire la verità, con qualche rimpianto sopito ma mai dimenticato del tutto: a dirla tutta, detestava i professori, forse per un personale sconforto che mai avrebbe confessato – e alla fine inventandosi un lavoro: il giornalista esperto di giochi (ne scriveva benissimo su “Repubblica - Venerdì” e prima ancora sul supplemento Tuttolibri  de “La Stampa”) e l’autore di testi sul gioco, fondamentali. E anche di una Storia confidenziale della letteratura italiana (in vari volumi, a partire del 1987), non la sua opera migliore e anzi qualche volta deliberatamente snob, ma testimonianza di una competenza che qualche volta sconfinava, appunto, nel deliberato snobismo, ma che era di raggio amplissimo. Come tale, ad esempio, non si vergognava ad entrare in territori non accademicamente accettabili: come in una sintesi parascolastica dell’Inferno (1999) che non consiglieremmo a uno studente incondito, ma che era piena di intelligenza: snobistica, appunto.

 I suoi interessi erano culturali, ma trasversali: I luoghi letterari, (1972), ad esempio, sono ancora – chi ha la fortuna di possederli – un testo fondamentale per chi legga la letteratura senza schemi tradizionali. Ma  lo ricorderemo soprattutto per essersi con agro divertimento dedicato ai giochi: sia quelli tradizionali (Enciclopedia dei giochi, 1999: tre volumi fondamentali), sia quelli – che personalmente ci sono sempre sembrati geniali – legati alla sua originaria passione e professione letteraria. I giochi di parole, gli anagrammi, la riscrittura di testi poetici sono tanti piccoli (piccoli?) contributi all’uso dell’intelligenza.

Scriveva, lui tutt’altro che conviviale, in modi invece semplici e coinvolgenti, senza esagerare ma sempre (chi lo leggeva attentamente) dando l’impressione di ritenersi, giustamente, anche degno di molto altro e ricco di competenze: ma il lettore anche non specialista si sentiva attratto, capiva che quello che leggeva era solo una parte di quello che Dossena avrebbe potuto dire, e lo seguiva con divertimento. Aveva il raro dono di far sentire intelligente il lettore, proponendogli cose apparentemente marginali ma sempre acute; e riusciva, da una frase, da una parola, da un mot a cavare percorsi impensabili prima, come negli anagrammi.

Per Dossena il gioco era una cosa dura e seria. Molto più del gioco universitario (che detestava, forse non del tutto a torto) e di quello legato alle case editrici, di cui era stato eccellente redattore, ricavandone un poco di disprezzo. Nel gioco, ritrovava una ragione laica, un mondo senza trucchi, un’idea della sapienza. Ribaltare per esempio le poesie celebri, con un gusto che in apparenza poteva sembrare goliardico e invece era letteratura allo stato puro, fu un suo divertimento solitario che attaccò ai lettori di Tottolibri fino a cavarne un libro tutto da godere: T’odio, empia vacca (1994) altro non era se non la rilettura antifrastica di T’amo, pio bove, che dava la stura a una serie di spericolati e intelligenti giochi di parole. Il lettore magari non lo sapeva, ma dietro il sardonico giochino, che richiedeva doti linguistiche non comuni (perché la riscrittura ‘a rovescio’ non solo doveva avere un senso non banale, ma anche rispettare regole metriche e poetiche), si celavano letture approfondite di cultura manieristica (in alcuni manieristi storici il gioco era così strepitoso che un sonetto, ad esempio, letto da sinistra a destra dava un senso, e da destra a sinistra il suo opposto).

Così anche per gli anagrammi. Eccezionali quelli sui nomi degli scrittori celebri: Eugenio Montale così diveniva ‘Uomo inelegante’ (assolutamente vero, poesie a parte): “si vestiva  – scriveva a commento – in modo da sembrare un banchiere, avendo un titolo da ragioniere”. Eccezionale quello di Umberto Eco: ‘becero muto’ – e anche qui, almeno a giudizio del sottoscritto, non aveva tutti i torti.

Quindi, come si vede, il gioco tornava alla letteratura. E a un umore nero, che era poi la sua caratteristica umana, così poco italiana. Del resto, chi ha mai sostenuto che i giochi sono liberatori? Anzi, sono, il più delle volte, così cupi da far paura.   







 



 
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