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Se una storia non può essere mostrata

di Sara Mamone
 
Data di pubblicazione su web 07/02/2009  

Germania, anni Cinquanta: gli anni del rimosso. Il quindicenne Michael, studente di buona famiglia viene assistito da una donna ancor giovane che lo aiuta a riprendersi e a ritornare a casa. Guarito, il giovane torna nella misera casa della donna, che vive con dignità orgogliosa la propria operosa povertà: scoppia l’amore, un amore forte che in lui si spiega con il fatto di essere il primo e in lei con un probabile mistero. Tra un amplesso e l’altro se ne va quasi mezzo film. Nella banalità più frusta, se non fosse per l’interesse della donna nei confronti della grande letteratura che lo studente le legge in alternanza all’amore. Come da copione Anna sparisce all’improvviso e il giovane non la ritroverà che molti anni dopo, brillante studente di legge, durante un processo nel quale la donna, insieme ad altre cinque compagne, viene accusata di orrendi crimini come carceriera ad Auschwitz. Con la stessa naturalezza che in amore, lei confessa i crimini  (tra gli altri l’incendio di una chiesa in cui erano state chiue 300 prigioniere). Michael è sconvolto, potrebbe forse alleggerirne la posizione, rivelando che, analfabeta, non avrebbe potuto firmare i verbali che risultavano da lei sottoscritti. Non lo fa e si porta dietro, per tutta la vita, questo rimorso che somiglia tanto ad un amore, fino alla condanna di lei, fino al fallimento della propria vita coniugale, fino all’ininterrotta comunicazione nel carcere dove le invierà le cassette registrate delle letture dei grandi romanzi che le aveva fatto conoscere (da qui il titolo che lo designa come solo protagonista: Il lettore). Fino al nuovo, ultimo incontro quando dopo venti anni di carcere la donna uscirà, affidata a lui dai servizi sociali. È chiaro che non potrà esserci un finale non diciamo lieto ma neppure pietosamente consolatorio: la donna non uscirà mai dal carcere, suicidandosi prima che le porte si aprano.

Ispirato all’omonimo best seller internazionale del giurista Bernhard Schlink il film di Stephen Daldry fa rimpiangere il libro dall’inizio alla fine e non perché il romanzo, che peraltro non conosciamo, sia un capolavoro, ma perché ciò che viene narrato è troppo complesso perché il film lo renda, troppo esteso nel tempo perché il film ne selezioni i momenti più significativi e perché i problemi che pone hanno bisogno di una lenta maturazione, le emozioni che deve suscitare sono emozioni morali e non visive. E infine, but not least, perché ci sono tragedie collettive che non è possibile, neppure con la più straordinaria emozione cinematografica, ridurre a fisicità individuali; e infatti il film paga dall’inizio alla fine questa fisicità, questa pesantezza che non diviene “Verità”. Perché questa è, semplicemente, una storia che non può essere mostrata.

Il regista non ha infatti particolari demeriti, essendo l’ inglese Stephen Daldry, fine e accorto proprio nel maneggiare emozioni sia nella sua solida esperienza teatrale, sia nelle (fortunate) esperienze cinematografiche (Billy Elliot e il “nominatissimo” The Hours), per giunta supportato dal talento di David Hare. E certo non ha demeriti la sempre emozionante Kate Winslet, cui il destino ha assegnato un volto unico, da cui sempre filtra un intrigante disagio e neppure il giovane David Kross, non esaltante ma di solida fisicità e di accettabile espressività. Ovviamente noi non avremmo mai scelto Ralph Fiennes per il ruolo del protagonista adulto, sembrandoci attore dotato del singolare talento di sembrare sempre fuori posto, sia paziente o impaziente, sofferente o sognante. Figuriamoci qui, costretto a fare i conti con la memoria di una vita e con quella (anche se spesso rimossa) della Storia. E per giunta vittima di un montaggio in cui i flash back hanno sempre bisogno di essere sottolineati dalla fastidiosa didascalia che li colloca con precisione nello spazio e nel tempo. Per chi si fosse distratto e non seguisse la storia.

Non mancano i bei momenti in questo film, soprattutto quando si archivia la storia amorosa ed entra in scena (alter ego del narratore) il professore di diritto, qui il grande Bruno Ganz che sostituisce immediatamente la teatralità alla visione, la parola all’immagine. I suoi dialoghi con il giovane studente sono, insieme all’altro “pezzo” teatrale del processo, i momenti migliori, quelli in cui  l’emozione riesce a diventare pensiero e, quindi, coscienza. Anche di chi guarda.










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