drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Confessioni alla Storia

di Marco Luceri
  Sean Penn in "Milk"
Data di pubblicazione su web 01/02/2009  
Il cinema di Gus Van Sant è un vero toccasana per la mente e per il cuore, e lui, l'irregolare regista americano sa come toccarli entrambi, riservando agli spettatori sterzate tanto improvvise quanto inaspettate. Per chi infatti si era abituato alle glaciali atmosfere del trittico sulla gioventù d'Oltreoceano (lo sconvolgente Elephant, il rarefatto Last Days e il sublime Paranoid Park, forse il suo miglior film di sempre), un vero monumento alla cruenta perdizione esistenziale dell'America di George W., ha dovuto ricredersi perché questa volta Van Sant ha riassaporato il piacere del racconto classico e ad effetto.



Il film inizia quasi alla Billy Wilder, con uno straziante Sean Penn seduto in cucina, davanti a un registratore che inizia a raccogliere i lucidi e vivi racconti della vita del personaggio che interpreta, Harvey Milk, il primo gay a occupare una carica istituzionale negli USA. Ma qui non siamo sul Sunset Boulevard di Viale del tramonto, ma nel quartiere di Castro, nella San Francisco multietnica del 1978, e il nastro contiene già la nera profezia della morte del protagonista. Quello che ci lascia Harvey sono le parole di una vicenda umana e politica straordinaria, quelle storie che ogni tanto, quasi per magia, l'America riesce a tirare fuori dal ventre della sua stessa storia per regalarle al mondo, in tutta la loro commistione di tragedia, humor, polvere, sangue e ideali. Van Sant fa procedere il film alternando le immagini girate da lui a quelle di repertorio, realizzate da tanti signor nessuno, testimoni viventi dei fatti che documentavano con le loro sgangherate mdp. Ma si sa, quando la storia accade lì, sotto i tuoi stessi occhi, la bella immagine si sgrana, diventa ruvida, immediata, reale insomma, come la vita di chi è chiamato a diventare un leader dal nulla.



E' questa, in fondo, la storia di Harvey Milk, quella di un messia da marciapiede, colorato, sfrontato, dal fiuto politico inarrivabile, un uomo determinato a farsi carico della lotta di una minoranza che non ci sta a essere sacrificata sull'altare dei "valori" riconoscibili dell'America "per bene", quella che pensa a Dio con le pistole fumanti, quella che invade il Vietnam e l'Iraq e tutti i posti del mondo dove le cose non vanno come dovrebbero andare. La storia, insomma, del sacrificio di un martire, costretto alla dolorosissima rinuncia degli affetti propri per vivere sulla propria pelle quelli di mille emarginati che sognano il riscatto dagli angoli più bui e dimenticati. Ma nel paese in cui tutto si paga, costa anche essere un leader di successo. E costa molto caro. Il prezzo? Quello più alto: la vita. Il lascito? Un milione di fiaccole in cammino sulle strade di San Francisco e molte, molte coscienze in più smosse per sempre. Ecco che allora le immagini nuove si (con)fondono con quelle vecchie, come la rabbia e le lacrime degli spettatori di allora si aggiungono a quelle di quegli di oggi, in un continuum senza tempo, fuori e dentro il film.



Per chi poi pensa che il cinema sia dei registi e il teatro degli attori, vedendo Milk si può ricredere, perché il film sarebbe impensabile non solo senza la direzione di Van Sant, ma anche senza la straordinaria prova d'attore di Sean Penn. Non è ancora dato sapere se nella patinata notte degli Oscar hollywoodiani Penn sarà premiato con la meritatissima statuetta di miglior attore protagonista (il gossip vocifera che anche in caso di vittoria il poco conformista attore-regista si distinguerà per la sua assenza), certo è che gli americani un pezzo di bravura così non lo vedevano da tanto tempo. La domanda è infatti la seguente: come ha fatto lui, Sean Penn, dal fisico e dalla presenza scenica così smaccatamente dura e virile a interpretare in maniera così credibile un omosessuale? Primo: non ha mascherato mai le sue caratteristiche fisiche. Secondo: le ha modellate, lungo tutto il film seguendo l'evoluzione del personaggio dalla dimensione privata a quella pubblica. Terzo: ha mescolato questi due aspetti, virando maggiormente su una dimensione più propriamente cerebrale, su cui ha innestato, abbozzandoli e rendendoli quasi impercettibili, dei clichés riconoscibili. Quarto: si è servito dei costumi e del trucco per entrare immediatamente nel personaggio, creandolo da fuori. Ha cioè realizzato un miracoloso equilibrio tra immedesimazione e interpretazione, quel mix, cioè, che solo i grandissimi attori sanno realizzare al cinema e grazie al quale il volto dell'attore si sovrappone in maniera indelebile, a quello della parte interpretata. Può darsi che gli onorevoli signori dell'Academy, quelli che hanno escluso Gomorra dalla cinquina finale, queste cose non le sappiano e che alla fine la statuetta vada ad abbellire la già fulgida carriera di un Brad Pitt qualunque.

Ma noi, che queste cose le sappiano, noi, che facevamo il tifo per Gomorra, noi, che crediamo che queste siano le cose veramente importanti che fanno di un film un grande film, noi, che crediamo che l'America e il mondo di Obama debbano trasformarsi da simboli in realtà, noi, la notte degli Oscar, non la passeremo guardando Sanremo, ma penseremo a Milk, a Sean Penn e ad Harvey Milk, e ci sentiremo migliori. Retorica a parte, sarebbe una bellissima notte per tutti.





Milk
cast cast & credits
 






 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013