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Menske

di Gabriella Gori
  foto dello spettacolo
Data di pubblicazione su web 14/11/2008  

Menske di Wim Vandekeybus è un “fumoso enigma” e questa dotta citazione – così si espresse Pietro Giordani nei confronti dei Sepolcri di Foscolo nel 1807 – non è un gratuito sfoggio di doctrina ma uno spunto di riflessione. Innanzitutto l’aggettivo “fumoso” bene si attaglia allo spettacolo dell’artista fiammingo, presentato dalla compagnia Ultima Vez al Teatro Comunale di Ferrara, in quanto dall’inizio alla fine il fumo avvolge la scena e in parte il pubblico per effetto di una macchina azionata da uno dei protagonisti. Poi perché il sostantivo “enigma” è adatto ad una pièce “anfibia” che oscilla tra teatrodanza e teatro senza riuscire a creare qualcosa di nuovo e di cui spesso si perde il filo del discorso. Il fatto è che qui – e nessuno ce ne voglia per l’impari e ingrato confronto - non siamo in presenza del carme foscoliano in cui anche l’enigmaticità di certi passaggi e l’andamento ellittico, che potevano all’epoca destare perplessità, non erano mai disgiunti da una precisa struttura e da un dettato chiaro e profondo. Elementi questi che mancano nel lavoro di Wim e di fronte al quale è d’obbligo comunque rispettare la riconosciuta autorialità dell’artista nordico, considerato una delle figure di spicco della scena coreutica europea, e attendere nuove produzioni.

 

Coreografo, regista cinematografico, danzatore, attore, fotografo, collaboratore di Jan Fabre, “un genio del teatro sperimentale” dell’ultimo scorcio del Novecento, Vandekeybus torna a Ferrara dopo essere stato ospite nel 1998 con Seven for a Secret never to be told, nel 1999 con In spite of wishing and wanting e nel 2000 con Inasmuch as life is borrowed. Per questa rentrée targata 2008 scende in pista con Du feu dans le sang, una silloge di pezzi realizzati per Ultima Vez, e appunto Menske, presentati al Festival di Danza Contemporanea della città estense. La produzione, datata 2007, prende in prestito per il titolo il diminutivo fiammingo di mens, uomo nell’accezione riduttiva di ometto, omino, allusiva ad una condizione povera e bassa dell’individuo, e segna il ritorno di Vandekeybus al Tanztheater dopo il danzante Spiegel del 2006. In Menske però a dire il vero di danza, anche quella cosiddetta “comportamentale” e afferente al teatrodanza, ce n’è davvero poca perché più che di danza si può parlare di movimento intervallato da monologhi teatrali, i migliori dei quali risultano quelli di Max Cuccaro, un attore nato.

E proprio in riferimento alla presenza o meno di Tersicore è necessario soffermarsi sul discrimen che esiste tra danza e movimento e considerare che la linea di confine sta nella visibile percezione della coscienza del corpo in chi agisce sulla scena. Nella pièce vandekeybusiana, come del resto in molti spettacoli di danza contemporanea e di teatrodanza, la danza s’incontra con il movimento e vediamo ballerini, e dunque individui realmente in possesso del codice danza, relazionarsi ad interpreti che questo codice lo conoscono solo superficialmente. Di conseguenza i primi ballano e mostrano un corpo forgiato dalla tecnica, i secondi si muovono ed esibiscono un corpo “ordinario” capace solo di esprimere un’attività cinetica ma non coreica. E in Menske lo spazio riservato a questi ultimi è maggiore rispetto ai primi che, solo sporadicamente, “tirano fuori i ferri del mestiere” e sembrano quasi costretti a negare la loro identità. Lo spettacolo, di cui Wim Vandekeybus firma regia, coreografia e scenografia, vede in azione dieci interpreti, vestiti da Isabelle Lhoas e chiamati a dare vita a “personaggi-simbolo” di un’umanità diseredata e derelitta in cui esplodono i conflitti e le contraddizioni fisiche e psichiche del menske, uomo o donna che sia.

 

In un’ambientazione avara di luce diretta ideata da Alban Rouge, che ricorda le atmosfere di Blade Runner, la fanno da padrona l’incomunicabilità e la solitudine e questa specie di “replicanti umani” si muovono all’interno di un paesaggio urbano colpito da una catastrofe e in cui domina un senso incombente di precarietà e di violenza fisica e verbale, accentuate dalle musiche del Gruppo Daan. Tra barriere di pannelli metallici, compreso un palo della luce da cui si dipartono lunghi fili, enormi scale appese nel vuoto, pugnali minacciosi branditi da figure sinistre, si assiste a corse folli, scontri di gruppo, tenzoni, scalate del traliccio, battaglie con i sacchi di immondizia legati a delle corde e lanciati verso il pubblico. In un crescendo cupo e distruttivo, che annovera la minzione di una ragazza sul proscenio e il delirio verbale di un’altra che urla “mi piace scopare” all’insegna di un nostalgico “epatez le bourgeois”, gli uomini imbracciano a mo’ di fucile i corpi delle donne mentre il rombo degli elicotteri e il fumo stile Apocalipse Now assecondano le musiche hard rock dei Daan. Poi tutto si placa, la tensione spasmodica svanisce e, calato il sipario, resta una ragazza che, volteggiando, impugna un coltello, simbolo del male e di un pessimismo di fondo sulla natura umana quasi priva di speranza di riscatto. Una speranza di riscatto che al contrario arriva dalla positiva reazione del pubblico e dagli applausi riservati a tutti i protagonisti.

 

 

 


Menske
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