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Medici, medici, medici…

di Roberto Fedi
  Grey's Anatomy
Data di pubblicazione su web 23/09/2008  

Qualcuno un giorno ci dovrà spiegare (un sociologo, uno psicologo, uno psichiatra…) perché i medici hanno così fortuna in Tv. Personalmente non ho nessuna risposta plausibile: perché sono gente che guadagna una marea di soldi? (così dicono). Perché sono belli? Perché fanno un lavoro interessante? Perché sono importanti per ciascuno di noi? Perché ognuno di noi, nel suo subconscio, vorrebbe salvare vite a tutto spiano (o il contrario)? Mistero.

Soprattutto perché, se uno pensa a quelli che conosce nella vita reale, beh: una tristezza. Salvo le regolamentari eccezioni, naturalmente. Per esempio, il sottoscritto sarà stato sfortunato: ma dottoresse belle come nei telefilm non ne ha mai avute al suo capezzale, o all’Asl. Lo stesso, a chi interessa, si potrebbe dire dei dottori. Non si vorrebbe offendere nessuno, per carità: ma non si venga a dire che i telefilm di medici sono realistici.

O meglio: il realismo gli autori lo hanno tutto pilotato verso le situazioni: operazioni a cuore aperto, sangue, sbudellamenti, terminologia, sale operatorie. In questo modo – qui sta la furbata – sembrano reali anche le storie dei medici: tradimenti, riconciliazioni, corna, amori, disamori, problemi economici, divorzi, figli illegittimi, parenti serpenti, problemi di coscienza, psicologie contorte, disperazioni, speranze, odi, simpatie… Diciamo la verità: se noi sapessimo che nell’ospedale vicino a casa nostra c’è tutto quel casino col cavolo che andremmo lì a farci visitare. Piuttosto da uno stregone.

Allora perché tutto quel successo? In Medici in prima linea (in America: E.R.) la grande invenzione era stata il ritmo: con quello che accadeva in una puntata c’era materia per una decina di film. Tutto sincopato, tutto rapido, senza fronzoli. Geniale, diciamo la verità. E eccezionali attori: George Clooney, ad esempio, è nato lì. Andiamo avanti. Nello straordinario Doctor House, oltre a un grande attore (si chiama Hugh Laurie, è inglese, ed è un tipo intelligente: anche romanziere di successo), c’è l’invenzione di un personaggio extra ordinem, di cui abbiamo già parlato.

Da tre anni va in onda (la prima volta nel 2005 in Usa) Grey’s Anatomy (Italia Uno, lunedì prima serata). Era difficile fare ancora una serie originale dopo Medici in prima linea. Beh: ci sono riusciti. Rispetto a quest’ultima molte cose cambiano: la più evidente, anche a chi la guardi per caso, è che il ritmo è più blando e la medicina in sé qui interessa poco. Ovviamente ci sono interventi, cuori che pulsano, sangue, bisturi e tutto il repertorio. Ma – lo hanno subito osservato i detrattori – la precisione e l’impressione di assistere a una vera operazione, anzi a una serie da libro di anatomia, un po’ latitano. Non c’è un rincorrersi di interventi e casi clinici. In questo, per quanto ne possiamo sapere noi, E.R. era insuperabile (del resto l’ideatore, il romanziere Michael Crighton, è medico). Una volta l’abbiamo visto negli Stati Uniti e non abbiamo capito una parola: il linguaggio era da specialisti del pronto soccorso.

La novità in Grey’s Anatomy è che le storie sono, almeno inizialmente, narrate dal punto di vista di una specializzanda in un ipotetico ospedale di Seattle, Meredith Grey, che con voce fuori campo di solito introduce e chiude un episodio. Il titolo è fra l’altro un gioco di parole, visto che il più importante testo di anatomia delle università americane ha come autore il dr. Gray (che si pronunzia quasi come Grey). Il resto della storia, episodio per episodio, va da sé; ma l’aver introdotto un personaggio a suo modo ‘normale’ che apparentemente osserva ‘dal basso’ e che non è nemmeno una protagonista è un bel colpo: serve a far identificare lo spettatore in uno qualsiasi dei medici e non nei pazienti, a non farlo sentire fuori dal giro. Così anche la scarsa scientificità. Altro elemento a favore: la compattezza dei personaggi, che sono un gruppo. Nessuno spicca, come invece accadeva in E.R.: il che è anche una bella valvola di salvezza, per il futuro. In E.R., infatti, la serie è cominciata a calare quando gli attori principali, divenuti famosi, hanno tagliato la corda: Clooney per primo, ma anche Anthony Edwards, che addirittura pur di andarsene è morto, nella finzione s’intende – ma a cui gli autori hanno dedicato un’uscita di scena degna di un capolavoro (ne abbiamo parlato: Lamento per Green). Qui, Grey a parte, la serie reggerebbe anche se qualcuno se ne andasse. Non è poco.

Le storie vedono, naturalmente, impegnati i personaggi nel loro privato. Che, però (altra scelta non banale), si mescola a volte col privato dei pazienti: così il malato titubante a rivelare l’amore per un’amica troverà in una dottoressa, che soffre della stessa inibizione, una confidente, e così via. È un modo che narrativamente funziona.

Bravi. Qui da noi, invece, giorni fa Italia Uno aveva cercato di fare una fiction (pardon) satirica su questo argomento: Medici miei, con Iacchetti, la Canalis e Covatta. Fra insulti reciproci (di Iacchetti al direttore di  rete e di questi a Iacchetti), l’hanno per fortuna chiusa dopo qualche puntata. Era così sgangherata che sarebbe anche troppo generoso definirla inguardabile, e con attori (?) che peggio non si potevano trovare.

Dove si vede che, ragazzi, la classe non è acqua. Neanche ossigenata, visto che siamo in un ospedale.





Grey's Anatomy

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