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La donna che visse due volte

Marco Luceri
  Un fotogramma del film
Data di pubblicazione su web 31/08/2008  

I francesi Patrice Mario Bernard e Pierre Trividic (che è stato anche sceneggiatore per Chéreau e Ferran), al loro secondo film, sono una coppia attiva già dal 1996 e con alle spalle anche un po’ di televisione. Il film che hanno presentato in concorso qui al Lido narra la storia dell’assistente sociale Anne-Marie (Dominique Blanc), che si separa dal suo fidanzato, più giovane di lei, Alex (Cyril Guei) perché lui vorrebbe una stabile vita coniugale, mentre lei vuole salvaguardare la propria libertà: si lasciano quindi, ma non in maniera drammatica, tanto che continuano a frequentarsi. Tuttavia quando Anne-Marie viene a sapere che Alex ha una nuova donna, per di più della sua stessa età, impazzisce di gelosia e sprofonda in un mondo inquietante, pieno di segni e minacce.




Il film è una cupa partitura sul tema della follia del desiderio che si trasforma ben presto in una vera e propria perdita dell’identità, tematica peraltro comune oggi a una buona parte del cinema d’autore contemporaneo (Lynch, Haynes, Bellocchio, ecc.). Quando infatti Anne-Marie perde Alex, la sua vita sembra farsi sempre più misteriosa e lentamente si trasforma in un gelido specchio deformante, fatto di presenze oscure, presentimenti, doppie figure di se stessa che la ossessionano, soprattutto di notte, quando, chiusa nel suo appartamento e all’interno di un anonimo palazzo di periferia videosorvegliato, si sente assediata dalla sua stessa nevrosi visionaria. In questa sorta di emorragia dell’identità si insinua infatti la follia della donna, a sua volta succube dei dispositivi mediatici della contemporaneità come i ritornelli ossessivi del marketing tele-pubblicitario (Siate voi stessi, Osate essere chi siete) che fanno da contrappunto alla vicenda intima, trasportandola su un piano più ampio, collettivo, si potrebbe dire.

Descritto in tali termini il film potrebbe sembrare un banale semi-horror psicologico, in realtà è molto di più: se si escludono qualche incertezza e qualche sbavatura di troppo, dovute probabilmente a una certa inesperienza, L’autre è un film sulle inquietudini della solitudine moderna, che ben si rispecchiano nel ritratto che i due registi hanno costruito della città. Il film si apre e si chiude infatti con una splendida serie di panoramiche sulle autostrade notturne che circondano un gigantesco agglomerato di automobili e cemento: un luogo anonimo senza spazio e senza tempo, in cui Anne-Marie e i pochissimi personaggi di contorno sono già, forse inconsapevolmente, privi d’identità, monadi senza direzione che si muovono in un mondo oscuro, spersonalizzato dalla tecnica.

È per questi motivi che il film di Bernard e Trividic può permettersi di mettere in scena il perturbante, la zona oscura, insolita, ma presente della vita di ognuno, dimostrando come un fatto semplice e comune, seppur sempre doloroso, come la fine di una storia d’amore si trasformi in una sorta di valvola di sfogo dell’instabilità, della precarietà e della fragilità di un’intera società, sempre più sofferente di fronte alla fine dei contatti umani. E quindi sempre più drammaticamente in preda al vero male di oggi, la solitudine.



L'autre
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