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Un ponte tra due mondi

di Marco Luceri
  Il regista Tariq Tapa
Data di pubblicazione su web 31/08/2008  

Non è un mistero che spesso nei festival internazionali i film migliori finiscano per essere relegati nelle sezioni collaterali: è il caso, ad esempio, di Zero Bridge, presentato nella sezione Orizzonti della Mostra di Venezia, sicuramente una delle opere più pregevoli tra quelle viste finora nella kermesse. L’esordiente Tariq Tapa (questo è il suo lungometraggio d’esordio) ha girato il suo film a Srinagar, nel Kashmir musulmano, la sua terra natale.

La storia ha come protagonista Dilawar (Mohamad Imran Tapa), un diciassettenne ribelle che vive alla periferia di Srinagar con il severo zio, un muratore che lo ha accolto dopo che la madre adottiva lo aveva abbandonato. Dopo aver lasciato la scuola per sbarcare il lunario lavora come apprendista nella squadra di muratori dello zio. Ma ben presto comincia a odiare questa vita fatta solo di fatica e di stenti, e coltiva il sogno di fuggire a Delhi. Per questo si fa pagare dagli ex compagni di scuola per fare al loro posto i compiti di matematica e arrotonda con qualche furtarello. Durante una commissione conosce all’ufficio spedizioni la bellissima e dolce Bani (Tanyia Khan), di cui il ragazzo si invaghisce, facendo nascere una tenera e contrastante amicizia (Bani lo aiuta a fare i compiti). Dilawar però non riesce a liberarsi del tutto delle sue piccole attività illecite e quando i due, alla fine, decidono di fuggire insieme, il loro sogno si infrange di fronte al muro delle responsabilità.

Piccolo film delicato e commovente su questo fragile rapporto a due, Zero Bridge è uno splendido affresco sulla provincia dell’India, uno dei grandi paesi emergenti dell’Asia, pieno ancora di tantissime contraddizioni, in cui la dimensione personale e la voglia di riscatto e di autodeterminazione di tanti giovani si scontra ancora con un retaggio culturale fatto di usi, costumi e religioni che impediscono a queste anime di realizzare i propri sogni. Spesso questi coincidono con il desiderio di raggiungere l’Occidente (Bani infatti rimpiange il periodo passato in America) o la grande città, Delhi, la capitale dell’India. Un sogno pieno di rischi, però, sembra ammonire il regista indiano, soprattutto per la difficoltà di abbandonare un mondo “antico” in cui i valori del sacrificio, del lavoro, dell’abnegazione sembrano essere comunque vitali, anche se spesso repressivi.

Girato per buona parte in esterni, alla luce naturale e come un semi-documentario, con un ampio uso della macchina a mano, Zero Bridge, con il suo piglio neorealista, ci porta all’interno di questa civiltà sospesa tra il passato e il futuro, e lo fa in modo aspro, forte, convincente, ma capace al contempo di conservare una dolcezza infinita nelle scene dei teneri silenzi e dei complici sguardi che si scambiano Dilawar e Bani. Il film si arricchisce di questo equilibrio affatto scontato tra la dimensione intima del sentimento e la dimensione sociale del riscatto individuale.

In mezzo c’è un ponte. Chiamato Zero. Che sta lì a tentare di collegare due anime, due sessi, due mondi, due dimensioni temporali. E Dilawar, dopo la dolorosa, ennesima fuga da casa, alla fine si ritrova a metà strada, proprio dove un arrogante poliziotto gli impedisce di sostare. Se ne sta lì, aspettando, forse invano, l’arrivo di Bani. Lì. Su Zero Bridge.

 




Zero Bridge
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