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«Non abbandonerai la tua arte, vero?»

di Luigi Nepi
  Akires to kame
Data di pubblicazione su web 29/08/2008  

Kitano, come al solito, torna a Venezia con una nuova, bellissima, provocazione. Sono passati cinque anni, e tre film, da quando Zatoichi fu accolto dal pubblico con una vera e propria ovazione; da allora l’autore è entrato in un periodo di profonde riflessioni sul suo personaggio (Takeshis’), sul suo cinema (Kantoku banzai!) e adesso, con Akires to kame (Achille e la tartaruga), sul suo gesto artistico, determinando, a detta dello stesso regista, una trilogia in cui le domande poste nei primi due film dovrebbero trovare in questa opera la loro risposta: «è l’atto creativo il fondamento dell’opera d’arte, non l’eventuale successo del pubblico o l’apprezzamento della critica» (cito dalle dichiarazioni presenti nel catalogo). Kitano abbandona l’anarchia narrativa che aveva caratterizzato le sue due ultime opere per recuperare i toni di Dolls e de L’estate di Kikujiro e raccontarci la vita e le opere di un artista, che, socialmente, verrebbe definito fallito. É la storia di Machisu, un personaggio la cui keatoniana imperturbabilità a tutto quello che di terribile gli succede intorno è pari solo alla sua caparbietà nel voler diventare un Artista, fin da quando era bambino.

Ma cosa vuol dire essere un Artista? Avere tecnica? Avere talento? Avere idee? Avere inventiva? Oppure, più semplicemente, avere successo? Kitano ci offre un’immagine del mercato e dei mercanti d’arte giapponesi, molto vicina alla mafia giapponese, la celeberrima yakuza. Niente sembra scalfire le convinzioni di Machisu, che come il quasi omonimo gigante lotta contro tutto e contro tutti (a volte anche contro l’evidenza) per inseguire il suo scopo, sempre assistito dalla fin troppo fedele moglie Sachiko. L’arte per lui è una droga, l’atto creativo diventa una necessità vitale imprescindibile, la disperata ricerca di “soldi per i colori” lo porterà a chiedere denaro anche alla figlia che, scappata di casa esasperata dal comportamento dei genitori, si guadagna da vivere prostituendosi. L’arte è vissuta come urgenza irrimandabile, il gesto creativo è impellenza, che solo l’artista prova e capisce («Il paesaggio ci sarà anche domani» viene detto a Matazo, una specie di Ligabue delle campagne giapponesi amico di Machisu, per farlo smettere di disegnare). Se l’arte è una droga, l’artista è mortifero, come un inconsapevole Nosferatu e Machisu assiste alla morte di tutti quelli che gli sono accanto: genitori, amici e colleghi si suicidano, la figlia muore, solo la moglie, che condivide con lui la sua idea di arte, si salva.

Kitano costella il film di gag macabre (strepitosa quella dell’amico artista che muore schiantandosi con l’auto piena di colori contro la tavola che voleva dipingere) e di quadri incredibili (tutti dipinti da lui), che rendono il film davvero godibile e spassoso. Non dovendo più rompere il giocattolo dei film “alla Kitano” (esigenza che comunque traspare quando, dopo un’ora e venti minuti di film, è lui a interpretare Machisu adulto), viene recuperata una certa struttura narrativa, solo apparentemente più classica, dove si disegna la splendida parabola dell’artista che cerca l’annientamento dentro la sua opera e nel suo gesto artistico fino a bruciarsi tutt’altro che metaforicamente. Salvato dall’incendio, viene dimesso dall’ospedale con una fasciatura da vero “uomo invisibile”, che lascia libero solo un occhio, recuperando così la visione monoculare della macchina da presa, perché, alla fine, c’è sempre il cinema ed è lì che Achille raggiunge la tartaruga.

Il Kitano di oggi sarà più “difficile” e meno universale di quello di Zatoichi e non raccoglierà le stesse unanimi ovazioni, ma, per chi ne condivide il percorso, rimane sempre valida l’esortazione che la moglie fa a Machisu: «Non abbandonerai la tua arte, vero?».




Akires to kame
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La locandina
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