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Le mille e una notte (al cinema)

di Marco Luceri
  Una scena del film
Data di pubblicazione su web 29/08/2008  

Che Kiarostami sia l’unico dei pochi maestri rimasti al mondo con il gusto della provocazione e della sperimentazione è per fortuna una delle certezze che difficilmente verranno scalfite anche nel sempre più incerto futuro del cinema. Ne è un’altra bellissima prova questo nuovo film, presentato nella sezione Eventi speciali, ispirato a Khosrow e Shirin, il poema persiano del XII secolo scritto da Nezami Ganjev, che racconta la storia di Shirin, principessa di Armenia che si innamora di Khosrow, re di Persia. Quello che è in effetti il primo dramma poetico persiano sviluppa la traccia narrativa di questo amore contrastato, proprio perchè la principessa rinuncia al trono per seguire la sua  bruciante passione, ma in Iran si innamora di un altro uomo, Farhad, scultore e architetto. Nasce così un triangolo amoroso e il bello è che gli spettatori, sì, proprio noi, seduti nel buio della sala, questa storia non la vediamo affatto.

È proprio questo il trucco poetico del film, visto che al dramma teatrale le uniche che assistono sono le centoquattordici bellissime attrici, tutte donne iraniane (con un breve cameo di Juliette Binoche), che interpretano il film di Kiarostami. ĞAttraverso questa esperienza ho finalmente realizzato un desiderio che avevo fin dai tempi in cui non lavoravo nel cinema: osservare lo sguardo degli spettatoriğ. E c’è da credere alle parole del regista iraniano visto che è proprio sui volti di queste donne (adolescenti, mature, anziane) che si consuma un dramma invisibile relegato al semplice racconto di alcune voci over. Senza voler scomodare Dreyer, Godard e Bergman, Kiarostami restituisce ai nostri occhi tutta la forza destabilizzante del cinema muto, quell’arte irriducibile che assegnava all’immagine un'inedito spessore comunicativo della rappresentazione del mondo.

Il regista Abbas Kiarostami
Il regista Abbas Kiarostami



In Shirin questa forza si concretizza attraverso un tessuto poetico che fa del volto la finestra attraverso cui il mistero del racconto, della fiaba, entra nella vita di queste donne, cambiando a volte impercettibilmente, a volte in maniera dolorosamente manifesta, i sentimenti che si nascondono nel loro animo più profondo. È così che queste silhouettes si trasformano in paesaggi (come dicevano Balazs e Deleuze) e rimandano al potere più oscuro della visione cinematografica, quello che riesce a far vedere l’interno attraverso l’esterno, l’invisibile attraverso il visibile.

È come se gli splendidi versi dell’antica civiltà persiana resuscitassero e ritornassero a galla dopo secoli di cultura orale, trasformandosi nelle immagini dolorose e senza tempo di un amore perduto, e restituendo alla donna tutta la dimensione poetica di Ğun eros che se per gli uomini riscalda, per esse bruciağ. È semplice gusto della provocazione questo? O è altrimenti un modo al contempo antico e modernissimo di parlarci delle profondità umane, attraverso uno strumento, il cinema, che per quanto piccolo e insignificante sia nel mondo di oggi, è ancora l’unico strumento per riportare in superficie il rimosso delle civiltà? È una domanda, questa, che sembra perpetuarsi e riproporsi ogni volta che maestri come Kiarostami ci propongono le loro opere, e ogni volta si ha la sensazione di trovarsi a un canto del cigno o a una nuova (ennesima) rinascita del cinema stesso.





Shirin
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