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Il tenue confine tra opera e oratorio

di Paolo Patrizi
  Una scena dello spettacolo
Data di pubblicazione su web 28/08/2008  

Il confine tra oratorio e melodramma può essere molto vago e la forza teatrale di certi soggetti biblici, d’altronde, è spesso più dirompente di tante Erismene, Orontee e Ipermestre che costellano l’opera in musica del diciassettesimo secolo. Ma anche l’oratorio d’argomento agiografico, per quanto meno denso di urti drammatici e conflitti psicologici rispetto ai plot forniti dall’Antico Testamento, può veicolare una drammaturgia – a tutti gli effetti – operistica: pistoiese di nascita e romano per formazione, Bernardo Pasquini (1637-1710) non arrivò all’anticonformismo che, qualche decennio più tardi, mostrerà il polacco Jan Dismas Zelenka nel definire «melodramma» il proprio De Sancto Venceslao, ma è indubbio che Il martirio di Sant’Agnese, composto nel 1677, conservi – pur nell’assenza di un’azione scenica propriamente detta – tutti i crismi del linguaggio operistico.

Né si deve pensare al classico uomo di palcoscenico dove il melodramma, uscito dalla porta, rientra dalla finestra: Pasquini, in prima istanza, era un organista e clavicembalista. Se al di là della struttura oratoriale questo Martirio ci appare vivificato dal soffio del teatro, ciò è dovuto all’icasticità di un soggetto non a caso frequentatissimo in pittura (per il toscano Pasquini la Sant’Agnese di Andrea del Sarto doveva essere un punto di riferimento), e dove la scabrosità della storia continuerà, magari camuffata, a perpetuarsi sino alla fine dell’Ottocento: trasferita in un contesto nipponico, la vicenda della vergine condannata allo stupro e all’esposizione in bordello la ritroveremo anche nell’Iris di Mascagni. La scrittura di Pasquini – fluida nel trascolorare dal recitativo all’aria e dai contorni melodici relativamente movimentati – assicura poi un’azione senza ristagni, lontana dalle rigidità dell’oratorio tradizionale.




Stando così le cose, un allestimento in forma semiscenica è forse il modo migliore per rendere giustizia al taglio drammaturgico di questo lavoro: ne siamo debitori al Festival di Musica Antica di Innsbruck, una di quelle rassegne che ormai potrebbero definirsi storiche (siamo alla trentaduesima edizione), ma rimaste un carneade per la stampa italiana. Al di là dell’interesse per il recupero di un tassello importante del barocco musicale romano (andò in scena nella capitale, auspice il cardinale librettista Benedetto Pamphili), è stata dunque la regia a trasmettere gli spunti più suggestivi, anche perché Vincent Boussard manovra con perizia l’insidiosa arte del semistage: scenografia limitata a pochi oggetti, ambienti suggeriti dalle luci, costumi moderni, recitazione accuratissima. Roma – che secondo la tradizione sarebbe stata teatro, nell’attuale Piazza Navona, del martirio della santa – viene evocata da una proiezione antinaturalistica, dove antiche rovine si specchiano nell’acqua. Flavio, rifiutato dall’adolescente Agnese orgogliosa della propria verginità, si trasforma in un bamboccione forse minorato, o comunque schiacciato dalla personalità dispotica del padre (il Prefetto che, per vendicare il figlio oltraggiato, condanna la protagonista). Mentre il «portento inaudito» del rogo che vede frangersi le proprie fiamme viene realizzato con un effetto naïf ma poetico: una cascata di petali rossi.

Alessandro De Marchi dirige l’Academia Montis Regalis sfoderando una ricchezza di colori che non sempre rientra nell’armamentario delle orchestre specializzate nel repertorio antico e barocco; ma forse su una simile tavolozza avrebbero meglio figurato voci operistiche “vere”, anziché meri specialisti del repertorio seicentesco. Qui di voce “vera” c’era solo quella morbida e carnosa, oltre che capace di accenti genuinamente drammatici, del soprano Karin Roman nei panni della madre della protagonista: una mamma assai più sensuale della figlia (ma con tal virginea progenie non ci vuole molto…), che forse – la regia accenna appena a questo spunto, ma è una bella intuizione – il respinto Flavio avrebbe potuto avvicinare con qualche costrutto, anziché gemere d’amore per l’inaccessibile Agnese. Quest’ultima era incarnata dalla giovanissima Emmanuelle de Negri, del tutto verosimile nei panni della santa dodicenne: voce esigua ma ben timbrata, ottimo stile, profonda compenetrazione con il personaggio.




Meno accattivante il cast maschile. Flavio era affidato dal controtenore Martin Oro, stilista di chiara fama affetto dai limiti strutturali (timbrici, in primo luogo) di quasi tutti i controtenori. Ma questo è un punto in cui entra in gioco, più che in altre occasioni, la soggettività di chi scrive: e l’autore di queste righe deve ammettere di non amare tout court tale categoria vocale, né il rigorismo filologico che nel tempo l’ha definitivamente imposta. È comunque innegabile che proprio questa vocalità, insieme all’ottimo gioco scenico del cantante, contribuisce a delineare il personaggio grottesco e stralunato voluto dalla regia. Analogamente, il tenore Kobie van Rensburg è affetto da sgradevolezze di timbro ed emissione: ma sono caratteristiche non disdicevoli per Aspasio, vera anima nera della vicenda. Mentre per la parte da “cattivo nobile” del Prefetto (che secondo l’agiografia ufficiale sarebbe l’imperatore Decio) si auspicava una voce più rotonda, ma soprattutto una minor propensione al birignao e al digrignamento, rispetto a quanto offerto dal basso Antonio Abete.





Lettera da Innsbruck Il martirio di Sant'Agnese di Bernardo Pasquini



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