Il sottotitolo reca la dicitura “per due cantanti, due attori, due danzatori e strumenti”, senza premettere alcuna definizione: né “opera da camera” né “azione musicale”, né “divertimento drammatico” né – men che meno – opera e basta, Il diario di Nijinsky sfugge a qualsiasi etichetta. Semmai, si può dire ciò che non è: come Musil riusciva ad autodefinirsi unicamente per sottrazione («Sono un austro-ungherese meno lungherese», amava dire di se stesso), così il nuovo lavoro di Detlev Glanert trova la propria ontologia nellassenza di un polo estetico e narrativo ben definibile. Non è nessuna delle definizioni azzardate sopra, e non è molto altro ancora: logico corollario duna drammaturgia ai limiti dellinesistente, dove troviamo Vaslav Nijinsky intento a fissare su diario i propri pensieri a ruota libera, seguendo il corso di quellalienazione mentale che avrebbe scandito la seconda parte della sua esistenza.
Il melomane dantico conio rimpiangerà Bellini e Donizetti, che seppero imprimere alla follia la perfetta architettura dei Puritani, dellAnna Bolena, della Lucia di Lammermoor; ma la scommessa di Glanert e della sua librettista Carolyn Sittig – che, senza inventare nulla, ha selezionato e montato parte dei diari scritti dal grandissimo ballerino nel 1919, alla vigilia dellinternamento in casa di cura – era proprio questa: mettere in musica e in scena qualcosa di assolutamente antinarrativo, tentando di raccontare lineffabile. E si tratta di una scommessa vinta forse solo a metà, ma certo fertilissima di spunti. Il difetto – a giudicare da questa “prima italiana” proposta al Cantiere internazionale darte di Montepulciano, a pochi mesi dalla “prima” assoluta tenuta ad Aquisgrana – sta nellapparente sproporzione tra durata dello spettacolo e quantità effettiva di musica “vera”.
Glanert elabora momenti strumentali memorabili: in particolare affascinano gli interludi, chiamati a separare i flash mentali che scandiscono i diversi momenti del monologo interiore del protagonista. Tuttavia, una ventina di minuti – complessivi, non continuativi – dottima musica è un po poco per una rappresentazione che sfiora lora e mezza. Limpressione è che Il diario di Nijinsky avrebbe tratto più giovamento, volendo mantenere tale lunghezza, se elaborato nella forma di mera pièce teatrale (una commistione di teatro di parola e teatro-danza, nella fattispecie), lasciando alla partitura una funzione di musiche di scena: fondamentali, ma destinate a intervenire solo in taluni momenti. Se invece – come qui avviene – lobiettivo è quello di fare “teatro musicale”, cioè con la musica presente dallinizio alla fine, forse era necessario un drastico ridimensionamento della durata. Ma si sa che dietro ogni critico si cela un autore mancato, e dunque certi suggerimenti del recensore vanno sempre presi con beneficio dinventario.
Qui adattato con sensibilità in lingua italiana da Erdmuthe Brand e Carlo Pasquini, il testo alterna un linguaggio ora crudo ora liricamente infantile, dove affondi metafisici si accoppiano alla fisicità più elementare: un soliloquio allucinato, scabrosissimo allapparenza ma nella sostanza dun candore quasi disarmante, dove Dio, masturbazione e tormentoni escrementizi si convogliano in un unico magma verbale. La schizofrenia del protagonista viene evocata grazie al ricorso di tre diversi piani espressivi – canto, recitazione e danza – e allo sdoppiamento di ciascuno di questi livelli: lorganico prevede, come si diceva allinizio, due cantanti, due attori e due ballerini e tutti, ovviamente, sono uno spicchio di Nijinsky stesso. Ma i ruoli tendono ad accavallarsi (i cantanti recitano, i danzatori cantano, gli attori ballano), raddoppiando e triplicando il gioco di schegge impazzite; e il fatto che le sei diverse facce del “poliedro Nijinsky” siano affidate a tre uomini e tre donne aggiunge ambiguità allambiguità.
Latipicità della struttura è contraddetta – o bilanciata, secondo i punti di vista – da un linguaggio musicale scevro da arditezze sperimentali. Anzi, nel lavoro di Glanert (non a caso allievo di Henze, uno dei pochi, negli ultimi decenni, ad aver creduto nella sopravvivenza del genere operistico) troviamo perfino, debitamente camuffati, riferimenti a topoi dellopera italiana, come il concertato finale («Tu ed io facciamo cac») che potrebbe leggersi come omaggio a quella «follia completa e organizzata» di cui parlava Stendhal a proposito delle geniali e deliranti onomatopee dellItaliana in Algeri. Per il resto ciò che sembra interessare il compositore è soprattutto la tavolozza timbrica: Glanert ottiene uno straordinario gioco dimpasti grazie alla commistione di strumenti antichi e moderni (un ulteriore rimando alla personalità scissa di Nijinsky?), lasciando agire la viola da gamba a fianco della chitarra elettrica, il flauto dolce accanto al sintetizzatore; e i due ensemble Algoritmo e Dissonanzen, diretti con sicurezza e precisione da Marco Angius, riescono a trasmettere la sensazione di unestrema originalità coloristica.
Chi invece non riesce né a valorizzare loriginalità del lavoro né a neutralizzare certi suoi limiti di fondo è la regista Chiara Villa, che impagina uno spettacolo asettico e didascalico, con scene e costumi (di Gregorio Zurla e Stefania Coretti) più grigiamente pauperistici che baciati dallintensità del “teatro povero”, e dove la componente coreografica resta forse un po troppo in sottordine, nonostante la bravura dei danzatori Lorenzo Piccolo e Arianna Belloli. Sul fronte dei cantanti e degli attori, gli elementi maschili sembrano preferibili: il baritono Oliviero Giorgiutti appare più incisivo del soprano Maria Tomassi, e lo stesso può dirsi di Geremia Longobardo rispetto alla giovanissima Martina Belvisi, cui si è sommamente grati per aver sostituito a prove inoltrate lattrice titolare, salvando lo spettacolo. In ogni caso tutti meritano lode per la duttilità con cui scambiano i loro ruoli, trascolorando da Euterpe a Melpomene a Tersicore. Resta però lasepsi di fondo impressa dalla regia: lontana sia dal senso di disperazione promanante dal testo sia da quella spigolosità plastica che, anticipando i traguardi della danza moderna, connotava spesso larte di Nijinsky.
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