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Le stagioni di Edita

di Paolo Patrizi
  Una scena dello spettacolo
Data di pubblicazione su web 08/07/2008  

La più insidiosa di tutte le arti che un cantante deve sfoderare è quella del crepuscolo, chi sa gestire magistralmente la propria parabola discendente merita viepiù la qualifica di fuoriclasse. Sono ormai rare, da noi, le occasioni per ascoltare Edita Gruberova, ma la sua recente e fugace rentrée italiana (una Liederabend a Milano e Roma) aveva dato l’impressione, nonostante i quattro decenni di carriera, d’una voce meno spericolata d’un tempo, eppure ancora intatta. Tuttavia, ciò che traspare da una serata di Lieder – dove l’estensione vocale è limitata rispetto al canto operistico, e tanto più nel caso di Roberto Devereux, la cui scrittura è caratterizzata da un’amplissima intervallistica – può essere smentito, in parte, alla verifica sul palcoscenico.

Ascoltata all’Opern Festspiele di Monaco in quello che, in ordine di tempo, è diventato l’ultimo dei suoi cavalli di battaglia (la tragica e devastata regina Elisabetta: forse la sola protagonista femminile cui Donizetti nega il benché minimo barlume di catarsi), la Gruberova denuncia, almeno di primo acchito, una vocalità con varie zone d’ombra. E non si tratta tanto di un’ottava alta che ha perso in nitore e fosforescenza, né di un’ottava inferiore depauperata in corposità. O meglio: l’uno e l’altro limite esistono, rispetto agli anni d’oro; ma più che veder intaccato un singolo registro, la Gruberova di oggi dà l’impressione di una voce “a macchie”, dove note ancora spettacolari si alternano ad altre assai meno sane.

© Wilfried Hoesl
© Wilfried Hoesl



Tuttavia, ciò che fa grande un artista è anche saper trovare nelle crepe degli anni la molla del proprio rinnovamento. E la Gruberova non solo conserva una straordinaria capacità di “giocare con la voce”, governando al millimetro il proprio strumento: gioca anche con i sopravvenuti limiti di quello strumento stesso, piegando a fini espressivi quel che ieri gestiva a scopi edonistici. Se fino a qualche tempo fa il suo Donizetti tragico (e Devereux è opera tesa, scarnificata e violenta più di qualunque altra) risultava un po’ manierista, la Gruberova di quest’ultimo scorcio di carriera è tutt’altro che manierata: ha trovato un proprio manierismo, trasformatosi in stile inconfondibile. Si astiene (non è la sola, tra le grandi interpreti di Elisabetta) dal cimentarsi nel micidiale salto di sedicesima alla frase «Del tremendo ottavo Enrico», ma il carisma e la comunicativa le consentono – anche agli occhi di quanti hanno in mente tutt’altri parametri interpretativi – di dar vita a un vero grande personaggio. Quando, fra molti o pochi anni che sia, deciderà di congedarsi dai palcoscenici, avremo perso una delle primedonne più sorprendenti (e dunque, teatralmente parlando, divertenti) che la storia del canto lirico ha avuto dal dopo Callas a oggi.

Tipica “opera per soprano”, Roberto Devereux trova nel personaggio eponimo un protagonista solo nominale, ma Massimiliano Pisapia, giunto all’ultimo momento per sostituire il tenore titolare, mostra di aver maturato il ruolo rispetto alla prova fornita ad Ancona un paio d’anni fa. Lirico e spavaldo insieme, declamatorio quando occorre ma morbido e carezzevole nei cantabili, centrato anche sul piano interpretativo (non cade nel trabocchetto di trasformare in eroe un personaggio che, sostanzialmente, è ambiguo e ambizioso), Pisapia offre una prova di egregia, aggiungendosi alla fitta schiera di cantanti sottoutilizzati che meriterebbero miglior fortuna. Chi invece, un po’ maltrattato da spettatori e critici italiani, ha trovato in Germania il proprio Eldorado è il baritono Paolo Gavanelli, da anni beniamino del pubblico di Monaco. Gli acuti – fissi, quando non gridati – restano problematici, ma il lungo praticantato teutonico l’ha affinato, se non sul fronte dell’emissione, almeno su quello dello stile: certi fraseggi in zona centrale sono molto apprezzabili e il trapasso dal Nottingham nobile e patetico al Nottingham spietato giustiziere è reso con abilità e coerenza. Jeanne Piland, infine, è una deuteragonista femminile di spessore, che può contare su un timbro autenticamente mezzosopranile, assai suggestivo, e su una presenza scenica altrettanto accattivante.

© Wilfried Hoesl
© Wilfried Hoesl


 

Friedrich Haider si ritaglia, grazie anche alla bravura della Bayerisches Staatsorchester, il suo momento di gloria in una Sinfonia ben cesellata. Per il resto, se il concertatore appare poco analitico – almeno rispetto alla ricchezza delle articolazioni interne di quest’opera – l’accompagnatore è validissimo, capace di valorizzare non solo la primadonna, ma tutti gli interpreti. E anche la regia di Christof Loy dà l’idea di esser cucita su misura sulle atipiche qualità sceniche della Gruberova (recitazione poco dinamica e presenza matronale, eppure, per le strane alchimie del palcoscenico, cantante-attrice di sagace espressività) o, almeno, di aver ormai raggiunto una totale empatia con la protagonista, dopo così tante recite (lo spettacolo si replica a Monaco da alcuni anni, ed è già stato immortalato in dvd).

La messinscena, in sé, non è allettante. Trasposta in epoca moderna, la reggia di Elisabetta I si trasforma in un cupo ufficio ministeriale, popolato da funzionari rozzi e violenti che sembrano uscire da una dittatura del vecchio blocco filosovietico: il malcapitato protagonista, imprigionato, qui viene sottoposto a un autentico pestaggio (mentre contemporaneamente Nottingham lega e imbavaglia la moglie supposta fedifraga), e quando intona «Bagnato il sen di lagrime, / Tinto del sangue mio» la camicia sbottonata si apre su un fiotto rosso e grandguignolesco. Anche i singoli caratteri vengono snaturati: Nottingham si trasforma in un anziano e frustrato portaborse, cui basta una piccola miccia per accendere la più violenta ferocia, mentre Elisabetta è una donna di potere in tailleur e borsetta thatcheriana, con gli ormoni ancora ben in funzione (morto Roberto, cercherà consolazione tra le braccia del paggio) ma ormai inguaribilmente vecchia.

Sotto quest’aspetto il suo improvviso stracciarsi la parrucca all’acme della gran scena finale, mostrando con masochistica impudicizia pochi capelli bianchi e arruffati, è la sigla d’una regia di segno fortemente misogino e caratterizzata dalla totale mancanza di pietas verso i personaggi. Si tratta però d’un colpo di teatro. E la Gruberova lo realizza in modo emozionante: mostrando che a questa lettura sembra crederci davvero.

 








Lettera da Monaco Roberto Devereux di Gaetano Donizetti



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